Lina Pallotta, Porpora, Roberta e Lucrezia, 1990 Courtesy the Artist
Una giovane donna è immobile su un letto d’ospedale, mentre la luce del giorno avanza e si ritira sulle sue coperte, arriva la notte, ricomincia il giorno. L’unica cosa che può muovere sono gli occhi, dall’alto verso il basso; l’unica cosa che può vedere è il soffitto, scurirsi e rischiararsi. Il cervello non è stato danneggiato, i pensieri vanno al passato e tornano al presente. Ricordano l’infanzia in una famiglia dove le donne si addestravano a risparmiare per i tempi bui, in cui i tempi bui erano diventati un fine, e non un mezzo. Ricordano la vergogna di scoprirsi e di essere scoperta come una bambina diversa dalle altre, il chiudersi sempre più in sé stessa per sfuggire a persone per cui esiste, e può esistere, solo chi è identico a loro, e l’inerme lasciarsi plasmare dall’immagine altrui. Rifluiscono i ricordi dell’amore dirompente, inconfessabile, luminosissimo e insopportabile per Dorian, che per gli altri era stato Dora.
«La disfunzionalità in famiglia si propaga di generazione in generazione, come l’incendio in una foresta, divorando tutto quello che trova per strada fino a quando una persona in quella catena non acquisisce abbastanza coraggio da voltarsi e confrontarsi con il fuoco. Questa persona porterà pace ai suoi antenati e risparmierà sofferenza ai futuri discendenti» le aveva detto una psicologa, ma lei aveva preferito seguire la pista degli avi.
È poi il pensiero di Dorian, ignaro dell’incidente che ha paralizzato l’amata Lucija, a condurre attraverso la seconda parte del romanzo Figli, figlie, della scrittrice croata Ivana Bodrožić, in un immaginario dialogo ininterrotto con lei, che all’improvviso è scomparsa. Un ossessivo interrogarsi sulle ragioni della sua dipartita, cercarle nella loro storia così difficile in un Paese ancora profondamente omofobo e transfobico.
E mentre si rimarginano le ferite dell’operazione che lo ha reso finalmente visibile a sé stesso e agli altri, si aprono quelle dell’assenza e della perdita: per giorni, infatti, non riesce a sapere cosa le sia successo: non può chiedere alla madre o agli amici cui Lucija non era riuscita a trovare la forza di presentarlo, di affrontare lo stigma. Un amore imprigionato e intensissimo, il loro, così massivo da risultare insostenibile.
La terza parte del romanzo ha la voce della madre di Lucija, cui lei è legata non dall’amore ma dal dolore. «Il nodo che ci tiene legati è il cuore oscuro della famiglia dal quale, per la maggior parte della nostra vita, desideriamo fuggire. Più tiriamo le estremità delle nostre corde fuggendo, più quel cuore nodoso si stringe e si chiude lasciando un solco doloroso nei nostri palmi. Se tiriamo abbastanza forte le corde potrebbero spezzarsi, e noi saremmo finalmente liberi, ma senza cuore. Per questo io e te tornavamo continuamente a quello spago, fin dove si poteva, cercando di sciogliere il nodo» rifletteva Lucija nel tempo senza argini della tetraplegia. La madre è una persona che non si ricorda più come era una volta, prima che le pretese familiari e sociali la incarcerassero nel ruolo di donna, di moglie, di nuora e di madre, come tutte le sue antenate. Una donna che riesce a riprendersi dalla tragedia che ha colpito la figlia propinandole cure che non può rifiutare e che si dispera solo quando, a causa di un pannolone messo male, si rende conto che «i suoi nipoti si disperdono rossi sulle lenzuola».
Con un sapiente gioco di riverberi, in questo romanzo tripartito, Bodrožić crea un’ariosa architettura allegorica intrecciando storie di individui intrappolati nelle loro membra. Letteralmente, o perché nati con un corpo che non corrisponde loro, o perché la forma di questo li àncora a attese e pregiudizi che impediscono loro di dispiegare le proprie potenzialità. Lucija rinchiusa nella paralisi e ancor prima nei traumi che si trasfondono di madre in figlia e nell’impossibilità di vivere apertamente la sua sessualità; Dorian che il suo corpo lo rifiuta, e per cui – prima dell’operazione – il solo doversi alzare la maglietta dal medico per farsi auscultare era un tradimento del suo essere; la madre di Lucija che, pur sentendosi estranea al ruolo che la società le affibbia in quanto donna, è costretta ad accettarlo e – dimentica di sé stessa – si ritroverà a perpetrarlo; ma anche il fratello di Lucija, ingabbiato negli schemi stereotipati del maschio virile.
Una società dove la violenza di genere si tramanda attraverso le generazioni e non risparmia nessuno: «Ragazzo e ragazza, uomo e donna, tutti insieme meno di un essere umano».
Non così tragico, perché rivoluzionario e liberatorio, è invece il racconto per immagini di un’altra e più compiuta metamorfosi: l’ormai trentennale progetto fotografico che Lina Pallotta ha dedicato a Porpora Marcasciano, storica attivista del movimento transfemminista italiano, ora raccolto nel volume Porpora. «La fotografia è una carezza, è accettazione», sostiene la fotografa e attivista newyorkese Nan Golding. Così le foto di Pallotta che – come osserva Raffaella Perna – cerca «di annullare la distanza che il gesto fotografico porta con sé», riuscendo a realizzare scatti che si basano «sulla prossimità, corporea e affettiva». Dove il corpo è tramite, e non limite, all’esistere.
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