Ascaro, chi te l’ha fatto fare?

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Agghindato con un’uniforme color sabbia, il tarbush poggiato sul lato, i fianchi stretti in una fascia multicolore e in una di lana grezza, il giovane Tequabo chiede la benedizione dei genitori: si è arruolato di nascosto. Sgomenti, non riescono ad aprir bocca. La partenza dell’unico figlio che è riuscito a raggiungere la maggiore età li strazia. Supplicarlo non serve, è troppo tardi. Lo stanno ancora baciando quando gli ufficiali lo portano via. Vedendolo piangere la madre sviene e la gente lo maledice per aver abbandonato gli anziani genitori. Allora «a Tequabo si capovolsero il cielo e la terra. Fuggì via correndo».

«Erano tempi, quelli, in cui il sangue degli habesha (abissini, ndr) scorreva copioso per via della guerra che era in corso in un luogo chiamato Tripoli. Durante le danze i giovani cantavano con la testa eretta: Chi rifiuta di andare a Tripoli è una donna!/ Chi rifiuta di andare a Tripoli è una donna!», racconta la voce narrante, stigmatizzandone la cultura della mascolinità. E se all’inizio Tequabo si interrogava sul senso di tutta quell’eccitazione, pian piano si era fatto sedurre dalla speranza di compiere atti eroici «che gli avrebbero guadagnato un nome limpido e stimato» in tempi in cui l’ascesa sociale degli eritrei era quasi impossibile e l’umiliazione costante. «Macchine nere» aspettavano lui e gli altri ascari. «Ruggendo come un leone affamato inghiottivano i giovani habesha strappandoli alla loro terra. Impaziente, la locomotiva fischiava e sferragliava con uno stridore assordante». Una bolgia di avventori cercava di dare loro un ultimo saluto, o portar loro cibo, ma era respinta a colpi di qurmasc («sì, proprio il qurmasc, come con le bestie da soma!»).

Scritto in tigrino negli anni 20 e solo ora tradotto in italiano dallo storico dell’università di Macerata Uoldelul Chelati Dirar (la traduzione inglese è del 2012, quella araba del 2022) L’ascaro. Una storia anticoloniale è una delle opere fondative della letteratura del corno d’Africa. L’autore è Ghebreyesus Hailu (1906-1993), un intellettuale eritreo che padroneggiava il ge’ez, la lingua della classicità degli altipiani eritreo ed etiope, il tigrino, l’amarico, il tigré così come il latino, il greco, l’italiano e il francese. Convinto unionista (affermava cioè l’indissolubilità di Eritrea ed Etiopia) aveva sfruttato i canali ecclesiastici per acquisire una formazione cosmopolita. Allievo brillante, dopo studi cattolici, dal 1924 passò alcuni anni nel Collegio etiopico in Vaticano e assunse poi incarichi religiosi e politici tra l’Eritrea, Addis Abeba e Roma. In un Paese ingessato dalla competizione ìmpari coi lavoratori italiani e dalla segregazione razziale, infatti, per gli eritrei una minima mobilità sociale si poteva ottenere solo entrando nell’esercito o votandosi a un’istituzione religiosa (cattolica, protestante o musulmana), spiega Dirar nell’interessante introduzione.

Hailu nel prologo dichiara che L’ascaro «rispecchia le emozioni che provai quando, diciottenne, attraversai il mare per recarmi in Italia a compiere i miei studi. Allo stesso tempo è manifestazione del ricordo dei miei fratelli arruolatisi nell’esercito coloniale che in quello stesso periodo attraversavano lo stesso mare». Dopo il drammatico racconto della partenza, l’autore infatti narra il viaggio in nave dei giovani soldati, ribaltando il tòpos della letteratura di viaggio europea del XVIII e XIX secolo che, osserva Dirar, rifletteva «il processo di costruzione discorsiva dell’immaginario imperiale, ed era funzionale alla costruzione di dicotomie con le quali procedere a una classificazione tassonomica del mondo e delle sue popolazioni» e che favorì l’affermarsi di una lettura esotizzata del resto del mondo: «la varietà e ricchezza delle diverse culture veniva ridotta a una contrapposizione semplicistica tra civiltà e barbarie, progresso e staticità, tradizione e modernità, cultura e natura» rafforzando «relazioni asimmetriche tra chi viaggia e chi è oggetto o destinazione del viaggio, tra chi osserva e chi è osservato». A osservare, in questo caso, non è infatti l’europeo, ma l’ascaro, non privo dei pregiudizi del tempo, e la voce narrante dell’autore il quale – a differenza di Tequabo «che non appartiene più a sua madre e a suo padre», come nota Maaza Mengiste nell’eloquente prefazione – è ancora ben radicato nella cultura e nelle tradizioni della sua terra d’origine e al contempo molto istruito sulla cultura occidentale. Una voce dunque priva di sudditanza culturale che confronta sullo stesso piano i due mondi senza incorrere nell’errore che Dirar imputa al politico e scrittore senegalese Léopold Sédar Senghor quando, riferendosi alla sua scrittura, «parla del francese come lingua della razionalità e del wolof come lingua dell’emozione, stabilendo così una partizione tra culture della razionalità e dell’istinto di implicita matrice coloniale».

Per gli ascari degli altipiani la prima rivelazione è il mare. Pastori nomadi, osservano ammutoliti all’alba le onde della bassa marea che «infrangendosi tra loro – come capre senza pastore che si muovono libere e disordinate cozzando l’una contro l’altra – sollevano una piacevole brezza che accarezza il volto, accordandogli una tregua dalla calura di Massaua». Salpati, invece dei «pesci enormi simili ai cani (pescecani) che mangiano le persone» incontrano i delfini «considerati amici dell’uomo» di cui «si dice che se un uomo cadesse in mare loro prontamente lo aiuterebbero». Questa osservazione, assieme alla metafora della luna che «una volta sorta (…) aveva finito per ingiallire l’acqua del mare», il quale «a sua volta, al pari di un animale domestico che reagisce grato alle carezze arruffando il pelo, rispondeva con lo sciabordio delle sue onde» suggerisce gli ultimi momenti di tenerezza per i giovani sprovveduti. E di bellezza: «di notte, in mezzo a un mare di cui non si intravede né l’inizio né la fine, l’improvviso farsi largo della luce». Sbarcati nel deserto libico la narrazione, tra citazioni leopardiane, bibliche e proverbi abissini, si fa irreversibilmente drammatica. Scalzi come sono si ustionano sulla sabbia rovente, ma gli italiani li fanno marciare per giorni. Non importa se alcuni di loro muoiono per strada. Dagli ascari, quando non li mandano a morire, i bianchi si fanno servire. «Se già adesso soffriamo così tanto, che ne sarà di noi tra due anni? (…) Due anni! Due anni in questo luogo infuocato come le terre dell’inferno e attraversato da folate di un vento malvagio, carico di sabbia fine come la farina». Portano l’acqua per gli italiani ma non ce n’è per loro: moriranno di sete e stenti oltre che nelle battaglie per “pacificare”, così diceva la propaganda, i beduini, pastori nomadi come gli ascari. «Il colonizzato, usato come strumento di colonizzazione altrui, era venuto fin qui non per trarre un beneficio per sé o per il proprio paese, ma per sottomettere invece questi conterranei che, anche se distanti, erano pur sempre figli d’Africa». Si stanno ponendo, osserva Hailu, le premesse per uno spargimento di sangue senza fine. «Gli arabi avrebbero insegnato ai propri figli e questi, ancora, ai loro figli: “Dimenticati pure qualsiasi cosa, ma non dimenticarti del sangue degli habesha”». Oggi come allora «Vite umane strumentalizzate, corpi usati come armi per il guadagno politico dell’Italia e di altri Paesi europei», osserva Mengiste in un parallelismo coi migranti.

L’epilogo, amarissimo, non contiene solo la schiacciante consapevolezza dell’errore cui furono indotti gli ascari ma anche una riflessione sugli effetti psicologici che tali comportamenti causano in tutti i colonizzati, non solo in chi si è arruolato (e in generale nelle categorie oppresse). «La nostra coscienza è morta», afferma il narratore. Spezzati, implosi per aver tradito la propria umanità, gli eritrei non appartengono più a loro stessi.

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Ghebreyesus Hailu

L’ascaro.
Una storia anticoloniale

Pref. di Maaza Mengiste, intrduzione
e traduzione di Uoldelul Chelati Dirar, postfazione di Alessandra Ferrini

Tamu edizioni, pagg. 140, € 15