«Cos’è il racconto di viaggio? Secondo me è l’esperienza del non esperto: definizione che ne racchiude la forza e il limite. Da profano che si è limitato a leggere qualche libro, posso solo raccontare quello che ho veduto (sentito, toccato, mangiato). La mia visione non è senza filtri, anzi risente di innumerevoli pregiudizi soggettivi e limitazioni oggettive, per non parlare delle vere e proprie censure. Però questa visione è un evento reale; un’immagine fallace ha assunto una provvisoria completezza». Racconta l’Eritrea riflettendo al contempo, metaletterariamente, sulla possibilità stessa di raccontarla, Tommaso Giartosio, poeta, scrittore, conduttore radiofonico.
In Tutto quello che non abbiamo visto, eloquente fin dal titolo, ne ricerca la bellezza (con descrizioni di grande suggestione) e s’interroga anche su un modo onesto e consapevole per descriverla, oltre che per confrontarsi, da turista, con un Paese che è stato per 50 anni colonia italiana prima di passare brevemente agli inglesi e poi agli etiopi, e sprofondare in una guerra durata mezzo secolo.
A sorprenderlo è stato innanzitutto lo spazio, terrestre e celeste: «ho capito che quella che avevo visto non era la Via Lattea. Ora la vera Galassia era sorta. Si divaricava da un capo all’altro del cielo, in tutto il suo contorcersi di intestino fumante di lumi… (…) La verità è che quella cosa – quella pura capienza – mi ha lasciato senza parole, oppure le parole che avevo non quadravano il conto. Come poteva esserci posto per lei e per noi, come può una vittoria così schiacciante della natura indifferente farmi sentire pienamente umano?». Lo spazio, e il rapporto che questo provocava sul suo percepirsi, ha avuto sull’autore un effetto magnetico fin dal primo momento, quando osservava dall’aereo per Asmara «l’indaco incolmabile della notte, fuori; i faretti dentro, uno per posto». Ed è divenuto anche un fil rouge narrativo. Il continuo raffronto tra infinito e finito, e anche tra oggettivo e soggettivo, tra Storia e presente, tra slancio lirico e ritorno alla banalità quotidiana permea tutto il racconto. Grazie alla capacità di Giartosio di tenere insieme dialetticamente tali opposti, senza snaturarli, il viaggio in Eritrea – uno dei luoghi della nostra colpa mai espiata e nemmeno compresa – diventa anche un’occasione per spingerci a pensare in modo eticamente ambizioso, per scrollarci di dosso la mediocrità, la ”sordità”, nella quale ci siamo rinchiusi, senza che questo degeneri nell’illusione o, al contrario, nell’autoassoluzione («E più mi informavo sulla storia di questo paese di cui anche il più acceso isolazionista avrebbe dovuto ammettere che in un modo o nell’altro indiscutibilmente ci riguardava, più mi agitava un confuso senso di colpa e solidarietà: confuso, come se anche nella solidarietà ci fosse qualcosa di colpevolmente riduttivo. Le vittime eritree delle guerre coloniali e postcoloniali, dei regimi oppressivi e delle fughe disperate, mi pesavano addosso»).
Significativa, in questo senso, la lucidità che accompagna la descrizione di quando l’autore e i fotografi coi quali è partito, dopo essere stati testimoni della povertà terminale del Paese, della ferocia della dittatura, del lascito infetto della colonizzazione, arrivano alle Dahlak, «arcipelago di centinaia di piccole isole scintillanti», e qui, immersi nei blu, nei bianchi, negli azzurri e nei turchesi lucenti e profondi sono sopraffatti da un’euforia di giochi infantili. «Il richiamo, per tutti noi, era troppo forte. L’archetipo occidentale dell’isola perfetta, l’Eden in cui trasformarci nel buon selvaggio (…). Non eravamo innocenti (chi lo è?), ma mettevamo in scena la nostra retorica dell’innocenza. Mai siamo stati così noi stessi come in quella mezz’ora di abbandono: sprofondati nell’illusione che più ci apparteneva, come uno sciamano sprofonda nella sua trance. E i nostri corpi segnati da tutte le fiacchezze e le fatuità dell’Occidente – gli «eritremi» solari e le unghie ricostruite e le pance da pastasciutta e i tatuaggi scelti da un catalogo – quel pomeriggio sono stati corpi ridicoli, e puerili, e gloriosi».
Significativo anche il doloroso riflettere sulle difficoltà a colmare la distanza che separa l’italiano dall’eritreo, lo iato che attrae e respinge i privilegiati e gli oppressi, l’amicizia inarrivabile, perché gratuita per assioma, tra la bambina che muore di sete nel deserto e la nuvola diffidente, per usare la metafora della straziante short story di un geniale e ancora misconosciuto scrittore eritreo-etiope, Saleh Addonia (in Lei è un altro paese, Casagrande, 2018, da poco in inglese, con nuovi racconti: The feeling house, Holland House, £ 10). È complicato persino giocare assieme, anche perché, come scrive Giartosio «il gioco fa perno sul predominio, lo mette in gioco, cioè al tempo stesso lo evoca e lo sospende, è insieme allenamento e rimozione e per questo ci dà piacere, a meno che il predominio non sia troppo percepibile, tanto da rivelarsi come privilegio reale e schiacciante, perché in tal caso il gioco va in survoltaggio e rischia di sbandare verso qualcos’altro, qualcosa di reale e violento».
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Tommaso Giartosio
Tutto quello che non abbiamo visto. Un viaggio in Eritrea
Einaudi, pagg. 184, € 18