Come scrivere dell’Africa? (Non lasciatela ai Kapuściński!)

«La forza dell’Europa e della sua cultura, al contrario di molte altre culture, risiede anzitutto nella sua capacità critica e soprattutto autocritica, nella sua arte di indagare e di analizzare, nelle sue continue ricerche, nella sua inquietudine. La mentalità europea riconosce di avere dei limiti, accetta la sua imperfezione, è scettica, dubbiosa, si pone interrogativi. Le altre culture sono prive di questo spirito critico. Anzi tendono alla boria, a considerare perfetto tutto ciò che è loro, in poche parole sono acritiche nei propri confronti» aveva l’ardire di scrivere Ryszard Kapuściński in Ebano, nel 1998, senza neppure rendersi conto del paradosso. Non ci sarebbe stato neanche bisogno che Binyavanga Wainaina si fosse fatto beffe del “cronista” polacco nell’articolo che inizia così: «Ho provato, una sola volta nella vita, a essere un uomo nero arrabbiato», e che prosegue con lapidaria ironia. Tutto, nel gustosissimo libro che riprende questo articolo – Come scrivere dell’Africa -, contraddice tali farneticazioni.
Wainaina ha cambiato il modo di raccontare il continente. E non solo attraverso la celebre e-mail con cui rispose al direttore di «Granta» quando gli chiese un pezzo per un numero monografico sull’Africa per il resto composto solo di reportage di autori bianchi su guerre sanguinose e savane assolate. Una e-mail trasformata in un saggio – intitolato appunto Come scrivere dell’Africa (2005), edito da «Granta», e divenuto il più letto nella storia della rivista – che predicava: «Nel testo trattate l’Africa come se fosse un solo Paese. È un Paese caldo e polveroso con pascoli ondulati ed enormi armenti di animali e persone alte e magre che muoiono di fame. Altrimenti è caldo e umido con persone molto basse che mangiano primati. Non andate a impegolarvi in descrizioni precise. L’Africa è grande: 54 Paesi e 900 milioni di abitanti troppo occupati a morire di fame, a farsi la guerra e a emigrare per leggere il vostro libro». Wainaina non si è limitato a dire, col suo sarcasmo ridanciano, come non bisogna scrivere dell’Africa, ma in tutti i testi raccolti nel libro appena pubblicato che prende il titolo dal saggio di Granta, ha mostrato come si può raccontare questo continente ricchissimo, complicatissimo, antichissimo, traboccante fantasia, voglia di vivere, e certo, dolore.
Alla fredda sedicente oggettività del reporter, Wainaina contrappone una caleidoscopica umanità, osserva attraverso tutti i sensi, tiene la giusta distanza grazie a un umorismo caldo e smaliziato, oltre che con abbondantissime dosi di quell’autocritica che gli sarebbe dovuta mancare per nascita, e offre un punto di vista sempre originale e illuminante. «Siamo sul litorale della Sierra Leone. L’umidità è quella del vapore di una pentola a pressione. I pori della pelle sono aperti e il sudore è il benvenuto. Al contrario di luoghi più freddi, dove il sudore odora di rancido, qui dona lucentezza alle membra. Il sudore, quando è fresco e scorre sulla pelle, è come un profumo. È l’unico condizionatore che funziona» afferma, ad esempio, in Erotomane culinario, scritto quando – indispettito dai resoconti di viaggio pescati su internet che descrivevano il cibo “africano“ come «schifoso» e «insipido e banale» – decide di lanciarsi in una gioiosa narrazione poetico-politica delle prelibatezze di vari Paesi africani, riportandone anche le ricette: «Le pentole gorgogliano nel calore meridiano. La cucina è in cortile; i bimbi giocano. Qualcuno sta tritando peperoncini (…) Dal fiume Congo alla Nigeria, i palati accolgono gli aromi muschiati e qualunque altro sapore imiti gli odori più sensuali del corpo umano. Igname. Il sapore che avrebbero le patate se andassero in calore».
Nato nel 1971 a Nakuru, in Kenya, da madre ugandese-ruandese e padre kikuyu, Wainaina ha conosciuto il Sudafrica negli anni 90, dove si era trasferito per studiare, sperimentando gli ultimi tempi dell’apartheid e l’euforia delle prime elezioni libere, ma anche le delusioni insite in quella sfida titanica. Ha poi vinto il Caine Prize nel 2002 con il racconto Scoprire casa – incluso in questa raccolta – e ha fondato con il ricavato la celebre rivista letteraria africana «Kwani?» (embè?). Scomparso prematuramente nel 2019 – no, non per Aids, e non se l’è neppure mangiato un coccodrillo – ha lasciato un solo, prezioso, memoir: Un giorno scriverò di questo posto, ora riedito (trad, di Giovanni Garbellini, 66thand2nd, pagg. 296, € 18).
Pochi anni prima di morire, l’ultimo coraggioso gesto d’amore per la sua Africa: pubblica online un capitolo stralciato dal memoir (non incluso in questa raccolta). Il titolo: I am homosexual, mum. L’autore immagina di rivelarsi alla madre, da poco scomparsa. Un coming out commovente, fatto quando Nigeria e l’Uganda inasprivano le già durissime leggi contro l’omosessualità, prevedendo anche la pena di morte.
Binyavanga Wainaina
Come scrivere dell’Africa
A cura di Achal Prahbala
Trad. di Massimiliano Bonatto
66thand2nd, pagg. 424, € 18