Il femminicidio è una questione di cultura?

«Non voglio gravarti di parte del mio senso di colpa, ma lasciarti conoscere l’uomo che sono. Quale altra eredità utile alla loro vita possono aspettarsi i figli dai genitori?». Sentendo la morte approssimarsi, il botanico e naturalista Michel Adanson – che aveva avuto l’ambizione di catalogare tutti i viventi – affida alla figlia Aglaé, trascurata per il troppo lavoro, un taccuino autobiografico. Il lascito più importante: lo ha capito solo negli ultimi mesi.

Lo scrittore e accademico franco-senegalese David Diop s’inventa questo breve manoscritto che va ad aggiungersi ai 27 volumi che Adanson presentò nel 1775 all’Accademia delle scienze di Parigi in cui cercava di mettere in relazione tutti gli organismi diversamente da Linneo, insieme a 150 volumi supplementari consacrati a 40mila specie. È il resoconto inventato del viaggio, reale, che lo portò ventenne in Senegal, per sei anni a partire dal 1750. Non quello scientifico, pubblicato poco dopo, ma uno intimo, nel cuore di tenebra della violenza coloniale, razziale e di genere.

Attirato dalle tante specie animali e vegetali mai descritte dagli scienziati europei, Diop immagina che Adanson si interessi anche agli uomini nativi e alle loro società devastate dal fiorente commercio di esseri umani, che coinvolgeva anche re locali. «La religione cattolica di cui per poco non sono diventato un servitore insegna che i negri sono per natura schiavi. Tuttavia, se i negri sono schiavi, so perfettamente che non è per decreto divino bensì perché conviene pensarlo per continuare a venderli senza rimorsi», fa scrivere al naturalista, che aveva imparato il wolof (lingua «monumento» che racchiude la magnificenza di quel popolo, parole che possono essere «cesellate quanto le pietre più belle dei nostri palazzi»). L’attenzione di Adanson è catturata dalla storia di una donna scomparsa. Si dice sia stata rapita ma sia riuscita a scappare da quel luogo da dove nessun nero ha fatto ritorno: le Americhe. Affascinato, andrà alla sua ricerca.

E così Diop, già autore dello splendido e pluripremiato Fratelli d’anima (Neri Pozza, 2018), decide di raccontare la colonizzazione attraverso gli abusi compiuti su una donna, nera. Indagando non un sintomo, ma due, delinea la malattia sistemica che da millenni infetta le nostre società e culture, quella del potere come arma di sopraffazione, dominio del più forte, dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo, della reificazione umana, della coercizione, della discriminazione e del pregiudizio: della violenza. Violenza che porta i carnefici a disprezzare le vittime, le vittime a disprezzare loro stesse, violenza i cui effetti si tramandano per generazioni: schiavitù ancora odierna.

«Ero sconfitto dal governatore di Gorée (l’isola da cui partivano le navi negriere, ndr), dal suo mondo, la sua forza, potentemente inesorabile quanto la legge di attrazione universale, trascinava con sé i corpi e le anime sia dei negri sia dei bianchi», fa scrivere al botanico francese. Più prezioso di tutte le conoscenze accumulate in una vita di studio matto e disperatissimo è – nelle parole del vecchio Adanson – far sì che la figlia possa conoscere chi sia stato davvero suo padre, come a dire che non basta sapere di cosa siamo fatti e le relazioni che ci legano agli altri organismi, ma bisogna essere consapevoli anche di quelle che ci legano al nostro passato. Per conoscere davvero sé stessi, per trovare il proprio posto nel mondo, bisogna farsi carico della memoria delle donne e degli uomini. Sapere da dove si viene, conoscere le colpe dei padri e delle madri o ciò che hanno subìto, e trovarne le filiazioni nel presente.

Un libro coraggioso La porta del non ritorno (trad. di Margherita Botto, Neri Pozza, pagg. 220, € 18), anche per lo sforzo di mettersi davvero nella pelle di una donna. Sorretto da una lingua elegante e che, pur con qualche ingenuità e non riuscendo a raggiungere le vette del romanzo precedente, regala una sapiente visione d’insieme di un passato (e di un presente) che fatichiamo a mettere a fuoco. E descrizioni del Senegal, delle sue usanze e dell’oceano tropicale di grande bellezza. Peccato manchi la revisione di un botanico: la donna scomparsa brucia corteccia d’eucalipto, odore che nel romanzo ha funzione di una madeleine proustiana, ma questa pianta è australiana e fu importata in Senegal solo un secolo dopo.

Una panchina dedicata alle vittime di femminicidio a Parto. Foto di SalvatoreFini

Anche la scrittrice paulista Patrícia Melo affronta insieme, ma in modo speculare, violenza di genere e razziale in Donne impilate (trad. di Roberto Francavilla e Elena Manzato, Bompiani, pagg. 252, € 18) come impilati sono i fascicoli delle numerosissime brasiliane ammazzate. Protagonista una giovane avvocatessa costretta dallo schiaffo di un fidanzato geloso ad affrontare il suo passato di figlia di un uxoricida. Quando aveva 4 anni il padre uccise la madre, fu lei a farlo condannare, ma non ricorda più nulla. La sua capa, ignara, la invia a seguire processi per femminicidio nello Stato di Acre, dove il tasso di tali crimini è il più alto del Paese e dove la popolazione indigena è discriminata, espropriata e costretta a vivere in grande povertà. Melo inizia ogni capitolo dando conto di un femminicidio e struttura la trama attorno alle indagini sull’assassinio di un’india per il quale sono accusati tre ragazzi dell’alta borghesia locale – mettendo bene in luce l’asimmetria vittima/carnefice: «il vantaggio della difesa è che non ha bisogno di dimostrare che l’imputato è innocente. Le basta creare il dubbio» – e la inframezza di narrazioni oniriche in cui la protagonista, aiutata dagli allucinogeni usati nei rituali degli indios, cerca di riappropriarsi del proprio passato. Ma il testo, che ambisce a essere insieme romanzo, narrative non-fiction e manifesto femminista, non riesce a essere compiutamente né l’uno né gli altri, pur avendo vari elementi d’interesse, come la ricostruzione del trauma dei figli di uxoricidi.

 

Simona Pedicini nel suo esordio Morte per grazia ricevuta (Fandango, pagg. 176, € 16), catabasi domestica, scandaglia l’eredità delle nostre tradizioni misogine, omofobiche e sessuofobiche evocando con grande potenza l’atroce violenza psicologica cui è sottoposta la figlia di un noto avvocato napoletano innamoratasi di una trans, e le donne della famiglia, violenza che porterà la bambina, ormai cresciuta, ad accanirsi sulla propria figlia, credendo che se lo meriti come si meritava lei di essere trattata così dalle persone che avrebbero dovuto amarla, che lei avrebbe voluto poter amare, e che degenererà in due femminicidi. Argomento di cui scrive anche Virginie Despentes in Caro stronzo, ora in italiano nella brillante traduzione di Maurizia Balmelli (Fandango pagg. 304, € 22. Per la recensione si veda “Domenica” del 20/11/2022 o il sito di Alleyoop): «Immagina se al posto delle donne uccise dagli uomini si trattasse di impiegati uccisi dai loro datori di lavoro. L’opinione pubblica si irrigidirebbe maggiormente. Ogni due giorni, la notizia di un datore di lavoro che ha ucciso un suo impiegato. La gente si direbbe, qui stiamo esagerando. Dobbiamo poter timbrare il cartellino senza rischiare di venire strozzati o accoltellati o fatti fuori a colpi d’arma da fuoco. Se ogni due giorni un impiegato uccidesse un datore di lavoro sarebbe uno scandalo nazionale. Pensa ai titoloni: il datore di lavoro aveva sporto tre volte denuncia e ottenuto un ordine restrittivo, ma l’impiegato l’ha aspettato sotto casa e freddato a bruciapelo. È quando lo trasponi che ti accorgi di quanto il femminicidio sia tollerato. Gli uomini possono ammazzarti. È una spada di Damocle. Lo sappiamo».

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  • carl |

    Ottime ed emblematiche le argomentazioni tratte dal libro della Despentes in cui i ricorrenti femminicidi vengono paragonati a degli ipotetici ed altrettanto ricorrenti omicidi di impiegati e datori di lavoro..
    In ogni caso, anche se sia il femminicidio che l’omicidio possono aver a che fare con ciò che “grosso modo” definiamo cultura, una prima spiegazione sicuramente la troviamo tenendo debitamente conto della raccomandazione che era incisa sul frontespizio del tempio di Delos: “Conosci tè stesso” e, dunque, indagando a 360° su noi stessi.

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