Che ne è stato degli orfani della Shoah?

La Shoah, si spera, non si finirà mai di raccontarla. Eppure, nella sterminata letteratura cui ha dato origine, c’è un aspetto meno esplorato: quello di cosa è successo dopo, di come chi non è morto è rimasto ad affrontare il mondo e i propri simili.

Degli orfani dell’Olocausto, in particolare di alcuni di loro, diede conto Sergio Luzzatto in I bambini di Moshe (Einaudi, 2018) ricostruendo con la perizia dello storico e l’arte dello scrittore l’avventura di Moshe Zeri, militante sionista che a Selvino, nella Bergamasca, fondò forse l’orfanotrofio più importante dell’Europa postbellica, la Casa dell’Aliyah giovanile. Qui raccolse centinaia di bambini ebrei superstiti e li preparò per il viaggio verso il neonato Stato di Israele.

La vita dopo la morte (così il titolo di un capitolo di Luzzatto) che li aspettava sull’altra sponda del Mediterraneo è invece narrata in Sotto l’albero delle giuggiole, un luminoso romanzo appena tradotto da Paola Rubini per una giovane casa editrice torinese, Acquario, che produce piccoli, eleganti volumi impreziositi da un disegno di Bobi Bazlen. Un romanzo che dovrebbe essere adottato nelle scuole superiori. Lo ha scritto una famosa attrice israeliana, Gila Almagor, nata nel ’39 vicino a Tel Aviv da una giovane ebrea polacca, fuggita appena in tempo dall’Europa, e da un ebreo tedesco scappato il giorno dopo la notte dei cristalli e morto prima della sua nascita. La madre soffriva di disturbi mentali; non riuscendo a farsi una ragione dell’essere l’unica sopravvissuta di una famiglia di 147 persone, s’incideva numeri sulle braccia. Gila, che in ebraico vuol dire gioia, crebbe in un istituto circondata dagli orfani della Shoah.

È tra loro che Almagor ambienta Sotto l’albero delle giuggiole. La protagonista è Aviha, la stessa ragazzina del suo primo romanzo, L’estate di Aviha (Acquario, 2021), scritto di getto, a cinquant’anni, nel tentativo di uscire da una depressione facendo i conti col proprio passato (in epigrafe: «un racconto che ho narrato per emigrare nel suo seguito»). Un titolo che ebbe un grande e meritato successo divenendo un libro di testo nelle scuole israeliane: la storia durissima e commovente di una bambina di dieci anni, inselvatichita dalla vita, che fa da madre alla sua stessa madre nell’unica stagione che passeranno assieme. Immerse nell’ostilità che, persino in Israele, gli abitanti riservavano agli immigrati, poverissimi e traumatizzati, appena arrivati dall’Europa; colpevoli, forse, di ricordare loro ciò che avrebbero voluto solo dimenticare.

In Sotto l’albero delle giuggiole, Aviha ha qualche anno di più, è meno irruenta ed è una dei pochi sabra (letteralmente: «fico d’india», ebreo nato in Palestina) dell’orfanotrofio di Udim: quasi tutti i suoi compagni hanno attraversato l’Olocausto. Vengono da là, dicono gli adolescenti, senza nominarlo mai. Paiono rispettare anche loro la regola che Moshe Zeri aveva stabilito a Selvino: «Mai una parola» sul passato (riferisce Luzzatto: «per rinascere bisogna pagare anche il prezzo del silenzio»), così come quella di abbandonare persino lo yiddish e le lingue di là, adottando l’ebraico.

Di giorno, i ragazzi fanno lezione e lavorano nei campi, discutono con foga se sia giusto che il governo israeliano accetti indennizzi per i crimini dei nazisti, mentre ciascuno prende le misure all’altro, lotta per il proprio spazio, nascono le amicizie assolute e tragiche di chi si sa solo al mondo, s’infiammano e bruciano i primi violenti, smisurati amori.

Di sera, invece, sentono ancora ululare i lupi. È proprio con il silenzio lacerato di grida minacciose e la scena terrificante di due bambini inseparabili ma apparentemente normali che, invece, certe notti, uno sulle spalle dell’altro, galoppano urlando nel cortile dell’istituto, mentre i compagni li osservano sgomenti dalle finestre e un senso d’oppressione s’impadronisce di loro, che con gusto cinematografico Almagor apre uno dei capitoli e visualizza la follia che è entrata e si agita ancora nei piccoli corpi dei sopravvissuti. Follia e dolore innominabile, per quanto è grande, che l’autrice alterna – senza alcun artificio – alla bellezza, alla delicatezza, alla voglia di vivere che commuove e strazia questi duri orfani dell’umanità. E che pure, nella loro eccezionalità, sono l’emblema dell’adolescente, che aborrisce il mondo che l’ha generato e annaspa nel tentativo di crearne uno a sua misura.

Quando vogliono stare da soli, quando la vita gli pare troppo per le loro forze, quando vogliono guardare lontano, i ragazzi di Udim salgono sulla collina accanto, in cima alla quale cresce un albero di giuggiole. È lì che Jurek, una notte, porta Aviha per dichiararle il suo amore. E lo fa chiedendole di sciogliersi la treccia, accarezzandole lungamente i capelli e dopo molto silenzio sussurrando: «Mia sorella, anche lei aveva…», continuando poi a pronunciare frasi rotte: «Aveva le trecce… lunghe… lunghe…», «Avevo una sorella…».

Forse Moshe Zeri si sbagliava: se dimenticare era necessario per sopravvivere, senza memoria non si poteva rinascere. La collina si riempirà di fiori di ogni forma e colore: tulipani, narcisi, giacinti, non ti scordar di me germogliati dai tuberi e dai bulbi regalati agli orfani dal giardiniere, un olandese che aveva salvato dei bambini ebrei e per questo era stato invitato a ritirare un premio in Olanda dalla regina. E una pianta di non ti scordar di me donatale da lui, Aviha la porterà con sé per deporla sulla tomba del padre. Nel caso l’avesse trovata: nulla sulla sua identità era riuscita a farsi dire dalla sua malata madre. E anche per la sua rabbiosa compagna Mira, prima odiata e poi capìta, la salvezza prenderà la forma del passato che non riesce a ricordare.

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Sotto l’albero delle giuggiole

Gila Almagor

Traduzione di Paola M. Rubini

Acquario, pagg. 188, € 15