Quella prigione che abbiamo imparato a chiamare casa

Enugu, Nigeria sudorientale, 2011. Mani e piedi legati, due donne di successo, sequestrate in una stanzetta da una banda di rapitori ragazzini, cominciano a raccontarsi la loro vita per far passare il tempo. E l’impressione che coglie il lettore di Due vite, due donne, di Cheluchi Onyemelukwe-Onuobia, è quella che in una prigione – a cielo aperto ma assai più pervasiva e inesorabile – ci siano sempre state. Ci siano nate e l’abbiano progressivamente e involontariamente imparata a chiamare «casa».

Inizia a narrare la sua storia la più giovane, Nwabulu. Parte dal 1972, da un villaggio di quello Stato secessionista che sette anni prima si era proclamato «Repubblica del Biafra» e che capitolò dopo un triennio di guerra civile e carestia in cui morirono un milione di persone. Il padre, sopravvissuto al conflitto, non era potuto sopravvivere a una figlia che aveva ucciso la madre nascendo – sosteneva la matrigna della piccola Nwabulu. Accusandola di essere una strega e non volendo avere una bambina in più da sfamare, la manda a fare la domestica a Lagos, dove è ripetutamente stuprata dal padrone di casa – succube di una moglie che si prende su di lui la rivincita contro una società che la sottomette – e  accoltellata da quest’ultima, quando coglie il marito sul fatto.
Rispedita a casa, la “sciupafamiglie” è inviata questa volta a Enugu per occuparsi del figlio di un’altra coppia, dove i rapporti di forza sono invertiti: il marito perfezionista tiranneggia la moglie, che sfoga la frustrazione su Nwabulu. A parte questi episodi, seppur freddamente, non la trattano male e le permettono di andare a scuola. Divenuta adolescente, l’affetto che le manca glielo promette il figlio dei ricchi vicini della coppia, di cui s’innamora. La metterà incinta per poi giurare alla madre che con «la domestica» non è stato. Licenziata per lo scandalo procurato, Nwabulu torna al villaggio dalla matrigna. «L’opportunità migliore, per una donna qual ero diventata, era sposare un vecchio e diventarne la seconda o terza moglie. Magari era un uomo senza figli maschi e sperava che dessi alla luce un bambino. Magari era vedovo, con dei figli piccoli che avevano bisogno di una madre. O era semplicemente vecchio e voleva del sangue giovane che avrebbe faticato a procurarsi altrimenti, e non gli dispiaceva farsi carico anche del bambino. In tal modo il bambino avrebbe avuto un nome e una certa protezione dall’ignominia di essere un bastardo. Una donna nella mia situazione non avrebbe rifiutato un’offerta simile. Anzi, la famiglia l’avrebbe accettata in sua vece, con gratitudine e sollievo, senza nemmeno dare al vecchio il tempo di finire di parlare. Era come vendere dei pomodori mezzi marci al mercato, al calare della sera. Si accetta subito e senza contrattare troppo l’offerta di uno degli ultimi clienti rimasti, magari uno che aspettava in disparte, prendendo tempo, in attesa della fine della giornata».

La matrigna non trova di meglio che sposarla a forza a un morto: l’unico figlio, deceduto, di una vedova senza eredi che non voleva che nome e proprietà della famiglia si perdessero. Nwabulu partorisce un bambino. Se ne innamora all’istante: «Fu un’inondazione d’amore che travolse l’indifferenza, l’amarezza, la negatività. Tornai a essere viva». Ma nella mente degli uomini e delle donne del villaggio, come in tutto il territorio igbo «non c’era alcun dubbio che i figli appartenessero al padre. Non importava in quali circostanze fossero stati concepiti (…) non importava se il marito era violento»: per Nwabulu si preparava la più terribile delle sorprese…
Il racconto dell’altra donna, la più anziana Julie, è solo apparentemente più gaio. Figlia di un insegnante, era bravissima a scuola. «Chi vorrà sposare una donna laureata?» domandava la madre al padre. «“Tu ti sei fermata ai tempi di tua madre” le rispondeva lui, agitando la mano come se volesse scacciare una zanzara fastidiosa che gli ronzava attorno all’orecchio. Si guardava la camicia immacolata, stirata con il ferro a carbonella, e i pantaloncini kaki con la piega, annuendo per la soddisfazione di sapere che lui capiva quel discorso meglio di chi lo ascoltava», scrive sardonica Onyemelukwe-Onuobia.
La guerra del Biafra sconvolgerà i progetti di ognuno, e la promettente ragazzina si troverà trentenne istruita, indipendente e non maritata. «Rimani una bambina e una figlia finché non diventi una moglie», protestava la madre: «Trovati un uomo, un uomo qualunque, e sposalo, fai figli. I figli. Sono la cosa più importante. Per essere felice e dare un senso alla tua vita». Per tirarsi d’impiccio, e per paura che sua madre avesse ragione, Julie escogita una delle soluzioni ”creative” che le donne s’arrabattano a trovare da millenni. E poi altre a cascata.

Chinelo Okparanta, foto di Kelechi Okere

Nwabulu e Julie si scopriranno legate non solo dal destino comune delle donne nelle società maschiliste, ma anche da qualcosa di più imprevisto e sconvolgente. E un senso di comunanza e condivisione, nonostante una cultura (ma non una religione) differente, si fa strada anche tra le lettrici italiane, perché la Nigeria è l’Italia, sotto molti aspetti, e la penna affilata di Onyemelukwe sa scavare sotto le apparenze. L’aveva osservato un’altra, più famosa, autrice igbo (di Enugu): Chimamanda Ngozi Adichie, cinque anni fa a Festivaletteratura, a Mantova, quando a una domanda sulla violenza che le donne devono subire in Nigeria rispose caustica che la quantità di femminicidi perpetrati nello Stivale non fa pensare che le italiane se la passino meglio.
Sempre col Biafra sullo sfondo, parla di donne, maternità, discriminazione e di una religione disumana anche un altro delicato romanzo nigeriano in uscita l’8 marzo: Sotto gli alberi di Udala, di Chinelo Okparanta, dove all’insensatezza della guerra segue l’insensatezza del considerare l’amore saffico come un abominio, nella mente della protagonista, una ragazzina igbo che ama una giovane hausa.

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Due vite, due donne
Cheluchi Onyemelukwe-Ounobia
Traduzione di Elisa Banfi
e/o, pagg. 288, € 19
Sotto gli alberi di Udala
Chinelo Okparanta
Traduzione di Tiziana Lo Porto
e/o, pagg. 400, € 19