Un uomo dileguatosi un giorno, 43 anni prima, senza dire una parola è colpito da un ictus. Poi da un altro ancora. Si riprende un po’, ma resta afasico: quel che nella sua nuova vita avrebbe potuto dire senza fatica, ma che ha aspettato decenni per fare, ora diventa anche fisicamente molto difficile da confessare. Improvvisamente però ne avverte l’urgenza. E l’avverte anche la moglie, che si era fatta da parte per molto tempo, accettando di non sapere neppure da dove provenisse il marito. L’Africa orientale, aveva detto lui, più vago che mai. Ai due figli, nati nel Regno Unito, raccontava di essere «una scimmia venuta dall’Africa».
Ruota ancora una volta attorno a un segreto L’ultimo dono, romanzo di Abdulrazak Gurnah, lo scrittore inglese originario di Zanzibar vincitore del premio Nobel per la letteratura nel 2021. Un non detto che condiziona la vita dei personaggi, così come in Cuore di ghiaia, dove un bambino viene misteriosamente abbandonato dal padre, o in Sulla riva del mare, in cui un ragazzo scompare nel nulla.
Quanto male fanno le cose che non si riescono neanche a dire?
Abbas, questo il nome del protagonista di L’ultimo dono, narra molte storie divertenti ai figli, mai la sua. Mai ciò che è successo alcuni anni prima di conoscere la loro madre, una trovatella di Exeter dalla pelle scura, sballottata da una famiglia di affido a un’altra. Prima di innamorarsene fulmineamente e pronunciare la frase «Yallah, andiamo via da qui», che segna l’inizio della loro epica familiare, la frase che i figli da bambini dicevano tra loro per scherzo. Un segreto al quale però non ha mai smesso di pensare e che riemerge con prepotenza quando meno se lo aspetta, sopraffacendolo «con inaspettata ferocia». Una storia che – a differenza delle altre («le storie non stanno ferme, cambiano a ogni nuova ricostruzione e si riorganizzano sottilmente a ogni aggiunta») – si è fossilizzata in lui. Dura e pesante come la pietra. «Suo padre era spesso silenzioso (…) i silenzi di Ba a volte erano cupi e il suo isolamento aveva un che di minaccioso, come se fosse andato dove non sarebbe stato piacevole incontrarlo. In quei momenti il suo viso si inaspriva, si chinava, accigliato, con gli occhi che brillavano per una sorta di dolore o vergogna. Quando parlava in quello stato, anche quando parlava a Ma, la sua voce era dura e le sue parole crudeli».
Ai due figli, Hanna e Jamal, i genitori – con le loro origini incerte e il loro inglese zoppicante – paiono due pesci fuor d’acqua. La più grande si fa chiamare Anna e col tempo assume una voce con «un sottofondo di sfida e di mondanità che prima non c’era. Era la voce di una giovane inglese che si faceva strada nel mondo». Anna insegna e ha un fidanzato la cui famiglia non riesce a dissimulare il senso di superiorità che hanno certi bianchi ricchi come loro. Jamal, invece, fa una ricerca di dottorato sui movimenti migratori verso l’Europa, «e aveva capito quanto la vita di questi stranieri fosse precaria, meschina e anche piena di risorse, quanto alcune delle loro storie fossero sanguinose».
In questo romanzo Gurnah si concentra infatti anche sulle cosiddette «seconde generazioni»: sui figli di chi è partito con «un miscuglio di ambizione, paura, disperazione e incomprensione» che gli ha permesso «di sopportare così tanto». Su chi questa decisione non l’ha presa, ma subìta, con la vergogna e il senso di esclusione che comporta. E, come se non bastasse, la «famiglia di immigrati Abbas» – così la chiama scherzosamente Anna – si scoprirà nascondere non un segreto, bensì due.
«Non posso sopportare questa cosa» sbotta furiosamente Anna in faccia a sua madre, quando viene a conoscenza di entrambi. «Non posso sopportare queste vostre schifose, indegne tragedie da immigrati. Non posso sopportare la tirannia delle vostre brutte vite!». Racconta poi al fidanzato, sentendosi un personaggio da melodramma comico: «vorrei solo che le loro storie non fossero così patetiche e sordide». Fidanzato che subito cerca di cavalcare il senso di inferiorità appena confessato. Approfitterà anche per dirle: «Sei sempre in tensione e pronta a litigare con tutti quando non ce ne è affatto bisogno. La mamma e il papà hanno fatto del loro meglio per accoglierti, ma tu sei riuscita a trovarli paternalistici e compiaciuti. Invece di metterli a loro agio e conquistarli li hai fatti vergognare. Non hanno capito la tragedia di essere te».
Ma quella di Anna che si lascia umiliare dal compagno non è la sola parabola discendente del romanzo: c’è ad esempio anche la sorella di lui, che pure è bianca. Impavida da bambina, non sfugge alla sorte di molte donne che diventano adulte in una cultura come la nostra (o come quella di Abbas dove «erano trattate come merci»): crescendo perde via via «quella sicurezza di tocco. Era come guardare un battitore che valutava male la lunghezza di una palla e che continuava a mancarla». Il suo giudizio non sarà più istintivo e sicuro. Arriverà a subire per anni le botte del compagno.
È questo un romanzo sulle occasioni mancate e sull’importanza della memoria individuale e collettiva per cercare sé stessi e il proprio posto nel mondo, ma è soprattutto un romanzo in cui Gurnah affronta la discriminazione razziale, di classe, di genere. E lo fa in modo universale: andando all’essenziale i meccanismi si rassomigliano e si sovrappongono, definiscono qualunque squilibrio di potere, ogni oppressione.
E così, in conclusione, si vedrà che il segreto che davvero non si poteva rivelare non è quello di chi è colpevole, ma quello di chi è vittima. Il padre confesserà, rammaricandosi di non averlo fatto prima, mentre la madre, pur essendo infine riuscita a raccontare la sua storia ai figli, rinuncerà a rivendicare la sua innocenza con coloro che l’hanno resa vittima due volte. Certi segreti, come quelli che sono costrette a celare molte donne, sono atti d’accusa verso una società intera, che si rivolta con ferocia per impedire che vengano alla luce: il sistema di potere che li ha provocati è ancora stabilmente in sella. Chi li custodisce resta intrappolato tra il dolore e la solitudine di nasconderli e tra il dolore, la solitudine e la vergogna di rivelarli a chi non vuole proprio sentire, né capire.
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Abdulrazak Gurnah
L’ultimo dono
Traduzione di Alberto Cristofori
La nave di Teseo, pagg. 348, € 22