Densi vapori si alzano dal mare pezzato di lastre di ghiaccio. L’aria ha una temperatura di meno 28 gradi centigradi e il traghetto-cargo Hurtigruten procede in un chiarore diffuso: il sole è appena sorto, dopo 50 giorni di oscurità, ma non riesce a fendere la cortina di nebbia, traccia impalpabile delle acque calde del golfo del Messico. Presto attraccherà a Kirkenes, ultimo avamposto della Norvegia nel mare di Barents, al confine con la Russia e l’infernale città di Nikel, che prende il nome dal metallo che vi viene estratto.
Da qui, nella tarda estate di quattro anni fa, è partito il primo cargo battente bandiera non russa che ha attraversato quel che resta del mitico passaggio a Nord-Est. Era carico del ferro estratto nella miniera locale, comprata nel 2006 e poi riaperta dall’imprenditore Felix Tschudi, il quale ha sempre dichiarato che non gli interessava il giacimento, bensì il porto privato che veniva venduto assieme. Nel 2011 le navi che dall’Europa sono arrivate in Asia passando per la rotta artica sono state 34, 46 nel 2012 e l’anno scorso 71, compreso il ponderoso Yong Sheng del colosso cinese Cosco Group, primo porta-container ad aver mai navigato quel mare leggendario, carico di 19mila tonnellate di prosaici prodotti asiatici.
Lo cercò Pitèa, nell’età di Alessandro Magno, avventurandosi nell’oceano per trovare la via che dal crinale d’Europa avrebbe dovuto consentirgli di ridiscendere fino all’India e al Golfo Persico. Desiderò raggiungerlo Tiberio che – racconta Augusto – navigò ab ostio Rheni ad solis orientis regionem (dalla foce del Reno verso la regione ad Oriente dove nasce il sole). Alle sue porte vi mori Barents e lo attraversò infine l’esploratore svedese Adolf Erik Nordenskiold, lasciando Tromsø, nel Nord della Norvegia, il 21 giugno 1878 e raggiungendo con la sua Vega il porto giapponese di Yokohama il 2 settembre 1879. Ma da quando, negli ultimi vent’anni, si è sciolta nell’Artico un’area 13 volte la Norvegia, quel luogo mitico e inarrivabile è per molti mesi l’anno una pallida distesa di acqua e neve sciolta. Tanto che Felix Tschudi racconta come la sua nave non avrebbe neanche avuto bisogno dei due rompighiaccio russi che l’hanno scortata nel 2010.
L’ampio braccio di mare che il riscaldamento climatico ha ormai aperto rischia di diventare un’affollata rotta commerciale: il tragitto tra l’Europa e la Cina è qui del 30-40% più corto rispetto al Canale di Suez (dove transitano 18mila imbarcazioni l’anno), dura una decina di giorni. «Vista da Pechino, Kirkenes è la destinazione più vicina d’Europa» ha detto l’ambasciatore cinese a Oslo. Il rompighiaccio Snow Dragon nel 2012 è divenuta la prima imbarcazione cinese ad attraversare il passaggio a Nord-Est.
Mosca assicura che nel giro di 3-4 anni la nuova rotta artica, detta anche Northern sea route, avrà a disposizione un’infrastruttura di base: «Tre rompighiaccio atomici e cinque diesel sono in costruzione, stiamo mettendo a punto dieci centri di ricerca e soccorso e costruendo o ricostruendo altrettanti porti. Ed è in preparazione una nuova costellazione di satelliti per assistere la navigazione», assicura l’ambasciatore russo per gli affari artici Anton Vasiliev, giunto nei giorni scorsi a Tromsø per partecipare ad Arctic Frontiers.
L’importante convegno che riunisce politici, ricercatori, società civile e rappresentanti delle popolazioni indigene del Nord ha scelto come tema dell’edizione 2014 la navigazione commerciale nell’Artico e la salute delle persone che ci vivono e ha registrato un’affluenza eccezionale, con la presenza di due capi di governo (Norvegia e Groenlandia) e di molti ministri e ambasciatori di svariati paesi di Europa e Asia venuti a ribadire il loro interesse nell’Artico e a offrire prodotti e competenze per la conquista dell’oceano più remoto del mondo. Tutti vogliono garantirsi una fetta dei guadagni che lo scioglimento della calotta polare promette.
Proprio in questi giorni all’International maritime organization si stanno chiudendo le negoziazioni per il Codice polare (Polar code), corpo di leggi internazionali che regola il traffico navale sulle rotte polari. «La Northern sea route può ridurre il consumo di energia per i trasporti, ma porta più inquinamento nell’Artico, e questo può accelerare lo scioglimento dei ghiacci, senza considerare i rischi di fuoriuscita di carburante» ha protestato Nina Jensen, presidente del Wwf norvegese, chiedendo un bando che escluda dall’Artico tutte le navi alimentate con combustibili inquinanti (dunque non a gas), come è stato fatto in Antartide e nei pressi delle isole Svalbard. In effetti, «le piccole ma continue perdite – inevitabili se il traffico nell’Artico aumenta – avrebbero un impatto maggiore su questo fragile ecosistema persino rispetto a eventuali grandi ma circoscritte fughe di petrolio legate all’attività estrattiva», sostiene Paul Wassman, professore di biologia marina artica all’università di Tromso.
L’aumento di attività nell’Artico, che sia la navigazione o l’estrazione di idrocarburi e minerali preoccupa anche i Sami e le altre popolazioni indigene delle terre dell’estremo settentrione. «Viviamo a contatto con la natura e tocchiamo con mano ogni giorno il cambiamento climatico, che altera la vita degli animali e degli uomini e che assieme all’attività estrattiva e alla crescita demografica che seguirebbe lo sviluppo della rotta polare potrebbe rendere non più sostenibile l’allevamento delle renne, che ha bisogno di grandi spazi vergini, e mandare in crisi un’altra attività tradizionale dei Sami, la pesca – spiega Aili Keskitalo, presidente del parlamento Sami –. Le nuove attività economiche devono portare beneficio anche alle popolazioni indigene e coesistere con le loro attività, e non essere fatte a loro spese!».
Difficile valutare l’impatto globale dell’apertura di questa nuova via commerciale: «Non ci sono risposte semplici – afferma Oran Young, professore emerito, esperto di governance internazionale alla Bren school of environmental science and management dell’Università della California a Santa Barbara –. Molti di noi pensano che si svilupperà molto lentamente e che all’inizio servirà soprattutto per il trasporto di materie prime in Europa e Asia e non tanto per i beni di consumo. Gli armatori, infatti, si stanno orientando verso porta-container sempre più grandi, troppo grosse per la Northern sea route. Molti studiosi si aspettano poi che la crescita economica sarà nel Pacifico, i prodotti si muoveranno soprattutto tra l’Asia e l’America, non verso l’Europa».
In ogni caso, qualunque siano gli accordi che verranno stretti, è certo che il passaggio a Nord Est sarà controllato dalla Russia, che fornirà le infrastrutture, i rompighiaccio, e che potrà chiedere un pedaggio. Un privilegio che – secondo lo studioso – potrebbe non durare a lungo: l’aumento del riscaldamento climatico nei prossimi 20-30 anni potrebbe aprire anche la rotta transpolare, più corta, capace di collegare direttamente l’Asia all’America, e libera da dazi di transito (tuttavia altri esperti sono scettici sull’utilizzabilità di questo percorso privo di porti). Difficile invece pensare a una navigazione nel Passaggio a Nord Ovest, a causa delle proibitive condizioni del ghiaccio.
«I Russi – continua Young – per il momento non sembrano investire seriamente nell’infrastruttura e nel giro di due o tre anni è probabile che la maggior parte del traffico riguarderà le navi che portano il gas liquido dalla penisola Yamal, dove si trovano alcune delle maggiori riserve al mondo, al mercato europeo in inverno e a quello asiatico d’estate. In questo caso le navi sono già state ordinate e stanno costruendo un terminal nel lato orientale della penisola». Molto, del destino della nuova rotta, e dell’Artico in generale, secondo il professore americano dipenderà da come si svilupperà la produzione di gas da argilla su larga scala nel Nord America, che avrà enormi conseguenze sui prezzi del mercato e che ha già frenato lo sviluppo delle attività estrattive nel mare di Barents.
La pensa diversamente Tim Reilly, che dopo aver lavorato alla Shell ha intrapreso un phd allo Scott polar research institute di Cambridge e ha aperto una sua società di consulenza (Arctic advisory group) con l’ex presidente del parlamento Sami Sven-Roald Nysto: «Storicamente l’apertura di una nuova via commerciale, come quella della seta, il canale di Suez o di Panama, ha portato al declino di un impero e all’emergere di un altro». Conseguenze simili potrebbero interessare la Northern sea route: «Se le trattative tra la Cina e la Russia per trasportare il gas dell’Artico attraverso il passaggio a Nord-Est dovessero andare a buon fine, nel giro di 20 anni potrebbe prendere il sopravvento una nuova via commerciale globale, molto più conveniente rispetto al canale di Suez. Passerebbe perlopiù nelle acque territoriali russe e l’equilibrio geopolitico mondiale potrebbe cambiare. Immaginiamo, infatti, che la Cina, che dipende per il 65% del suo prodotto interno lordo da commerci effettuati via mare, traffici che frequentemente passano per rotte pattugliate dalla marina statunitense, decida di sviluppare l’infrastruttura della Northern sea route al posto della Russia, che non ha i soldi, in cambio del gas di cui ha sempre più bisogno. Il controllo di questo traffico molto competitivo sarebbe in mani sino-russe e non ci sarebbe posto per gli Stati Uniti in questo disegno. La nuova superpotenza potrebbe essere la Cina».
Il peso dei paesi che si affacciano sulla calotta polare del Nord crescerà via via che il riscaldamento climatico renderà accessibili risorse minerarie e di idrocarburi fra le più importanti al mondo, prima coperte dai ghiacci. «In Groenlandia i vantaggi dell’effetto serra sono maggiori degli svantaggi», ci risponde Aleqa Hammond, primo ministro della Groenlandia, che spera di arrivare presto all’indipendenza proprio grazie all’estrazione di materie prime. Anche se non lo ammettono così candidamente, chissà che non la pensino così anche alcuni dei grandi e potenti paesi artici: Russia, Canada, Stati Uniti, Finlandia, Norvegia, Islanda, Svezia, Danimarca. Difficile, dopo aver sperimentato il fermento che si respira ad Arctic frontiers, immaginare che il mondo sarà capace di mettersi d’accordo per fermare il riscaldamento climatico. Difficile lasciare Tromsø senza pensare alle conseguenze che potrebbero patire i paesi tropicali e temperati.
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