Bastano cento millisecondi al nostro cervello per farsi un’idea se lo sconosciuto che ci sta davanti merita fiducia. Fin dai primissimi istanti di una visita, come due cani che incontrandosi s’annusano, i cervelli di medico e paziente si scrutano vicendevolmente attraverso meccanismi consci e inconsci e gettano le basi per un’interazione che potrà avere effetti positivi e negativi molto maggiori di quel che si pensa. E che può anche dare origine all'illusione di essere curati mentre invece si sta ricevendo solo conforto e acqua fresca. Anche quando la malattia non è immaginaria, l'immaginazione gioca un ruolo importante nel processo di guarigione. Non basta offrire la giusta terapia: per stare meglio il malato ha bisogno du speranza, aspettativa, e di un (trascurato) buon rapporto tra il medico e il malato. Una relazione fatta di stima, conforto e comprensione i cui effetti sono così benefici che spesso il paziente rischia di preferirli a una reale cura. Fin dalla prima impressione, la mente del paziente inizia a modificarsi. Oltre al senso di fiducia, contano i gesti del terapeuta, il tono e l’assertività delle sue parole, l’incoraggiamento verbale, la promessa di un miglioramento. Tali emozioni provocano infatti la liberazione di un gran numero di neurotrasmettitori, come gli oppioidi naturali, e l’attivazione di aree cerebrali e circuiti neuronali alla base di fiducia, speranza, empatia che possono generare sensazioni di piacere e gratificazione capaci di ridurre il dolore e che in alcuni casi sono parzialmente in comune con il meccanismo d’azione di certi farmaci, e dunque lo possono modulare e potenziare. Una volta che il malato riceve la terapia, nel suo cervello entrano anche in azione i meccanismi dell’aspettativa e dell’effetto placebo che in alcuni casi si sono mostrati pure capaci di risvegliare una più efficace risposta ormonale e immunitaria. Studi scientifici hanno mostrato che curando l'interazione col paziente e lo stato d'animo del malato si può accelerare la guarigione o far sopportare meglio il dolore in svariate malattie, dal parkinson fino alle ustioni, dalle patologie coronariche alla depressione. In altre parole, il puro rituale del ricevere una terapia, indipendentemente da questa, può avere un effetto potente che va ad aggiungersi e a potenziare quello del trattamento. Ma può anche confondere le idee al malato. Esemplificativo uno studio sul costo delle medicine: più alto era, a parità di sostanza, più elevato era il beneficio percepito. O il caso della psicoterapia, dove la buona intesa tra medico e paziente sembra essere la terapia stessa, visto che il beneficio misurato è il medesimo indipendentemente dai 400 tipi diversi di trattamento disponibili. Fino dalla notte dei tempi, del resto, troviamo stregoni, sciamani e altri ciarlatani. La loro esistenza e persistenza suggerisce che un effetto, il puro rito terapeutico, lo deve pure avere. Il rischio, oggi che esistono anche terapie efficaci, è che i pazienti le trascurino solo perché i medici non sono in grado di fornirgli anche i benefici del "rito". «Non solo i medici devono preoccuparsi di acquisire buone capacità tecniche, ma devono anche rafforzare le loro abilità sociali», afferma il fisiologo Fabrizio Benedetti nel suo recente saggio The patient’s brain. The neuroscience behind the doctor patient relationship (Oxford University Press, pagg.328, £34,95) in cui esplora la relazione medico-paziente da un punto di vista neurobiologico. Benedetti dirige un laboratorio presso l’Istituto nazionale di neuroscienze di Torino che il «The New England Journal of Medicine» ha definito il più importante al mondo per gli studi dell’effetto placebo. Nel suo saggio descrive cosa determina la percezione di un sintomo e cosa la influenza (per esempio fattori psicologici come ansia, depressione rabbia esacerbano la sofferenza) ma anche cosa significa cercare sollievo dal dolore, avere fiducia, sperare, e aspettarsi che la malattia migliorerà o peggiorerà (effetto placebo e nocebo). Mostra, con le neuroscienze, l’importanza di curare il paziente, e non solo la malattia. Il quadro che emerge è di ricerche ancora troppo settoriali per dare una spiegazione complessiva e sintetica del fenomeno. Ma se ne possono già ricavare una serie di consigli. Ovvi, forse, ma dall’efficacia scientificamente provata. Se da un lato il paziente deve mettersi nelle condizioni di fidarsi e sperare, dall’altro lato il medico deve mostrarsi empatico e compassionevole, rassicurante e amichevole. Fondamentale la fiducia e creare aspettativa: esperimenti condotti su malati che non sapevano di essere curati hanno mostrato una riduzione dell’efficacia del trattamento. Mai negare la speranza: se non guarirà il malato ne ridurrà la sofferenza. E voi che cosa ne pensate? Scrivete la vostra opinione nello spazio riservato ai commenti
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