Il tè e il caffè danno dipendenza, con tanto di sindrome d’astinenza (cefalee forti e persistenti, difficoltà di concentrazione e affaticamento, ci si sente un po’ come quando si ha l’influenza), mentre a piccole dosi hanno effetti benefici. Due-tre tazze di tè o tazzine di caffè al giorno sono da considerasi sicure per la maggior parte delle persone.
Il cioccolato invece avrebbe i presupposti per creare dipendenza, ma non è ancora chiaro se questi siano in quantità sufficiente per renderci ciocco-tossici. Il teobroma cacao (cibo degli dei, lo aveva chiamato Linneo), come altri cibi dolci, stimola il rilascio di endorfine, i cosiddetti oppiodi naturali, molecole che il corpo produce per generare sensazioni di piacere e benessere. Non solo, contiene oltre 300 sostanze chimiche, e ancora non si conosce esattamente il modo in cui interagiscono con l’organismo umano.
Ci sono per esempio stimolanti del sistema nervoso centrale, come la caffeina e la teobromina, o il triptofano, una molecola che il cervello usa per produrre la serotoina (alti livelli di serotonina nel cervello generano euforia, addirittura estasi, difatti è su questa molecola che fanno leva gli antidepressivi o l’ecstasy). C’è poi la feniletilamina, che si è guadagnata il soprannome di “anfetamina del cioccolato: in grandi quantità favorisce l’insorgere di eccitazione, inquietudine, desiderio sessuale. Idem per l’anandamide, un neurotrasmettittore che agisce in maniera simile al principio attivo della cannabis. Ma questo cocktail di sostanze sarebbe presente in quantità troppo piccole: servirebbero diversi chili di cioccolato per ottenere l’effetto di uno spinello.
Le sostanze contenute nel cioccolato agiscono sul centro del piacere e della gratificazione, lo stesso su cui agiscono le droghe, e poiché la dipendenza è un processo associato con la liberazione ripetuta di neurotrasmettitori nel cervello, è possibile che continuando a mangiare cioccolato il cervello si plasmi via via in modo da farci amare sempre di più il cibo degli dei. Il cioccolato però, a differenza di altre sostanze, non pare avere effetti negativi, a parte il rischio, non trascurabile, di diventare obesi (l’obesità aumenta il rischio di malattie cardiovascolari).
Il cioccolato però non è tutto. Sotto accusa ci sono anche gli zuccheri e gli alimenti grassi in genere. Diverse ricerche sui ratti hanno infatti mostrato che le sensazioni di piacere che provocano gli zuccheri e i cibi grassi coinvolgono un rilascio di oppioidi nel cervello che pare essere differente rispetto agli altri cibi. Se questo rilascio viene bloccato con i farmaci che si usano per combattere la dipendenza la richiesta di cibo (i topi se lo auto-somministravano premendo una leva) si riduce molto, soprattutto verso i cibi ricchi di zuccheri. Studi simili condotti su persone bulimiche hanno dato risultati analoghi: assumendo farmaci che bloccavano il rilascio di oppioidi il consumo di cibi dolci e grassi si dimezzava, mentre restava uguale per cibi a basso contenuto di zuccheri e grasso. D’altro canto, se si somministrava morfina nel centro della gratificazione di alcuni ratti, questi mangiavano sei volte tanto il lardo che avrebbero mangiato normalmente.
“E’ noto – spiega Ottone – che le sostanze d’abuso, il cibo, il sesso, le cure materne attivano anche l’are del centro del piacere e della gratificazione. Il problema è però capire se generano la dipendenza. Questa si ha quando vi è il passaggio dal prendere la sostanza d’abuso per i suoi effetti positivi (come piacere, euforia, ndr), a quando la si assume per evitare gli effetti negativi dell’assenza di questa”. Secondo il ricercatore ci sono molte analogie tra gli effetti provocati dal cibo gustoso e quelli delle sostanze d’abuso.
Sulla base della chimica e dei comportamenti dei pazienti, alcuni psicologi e psichiatri iniziano a ipotizzare che anche alcuni disturbi correlati all’alimentazione e alla fisicità possano avere caratteristiche simili alla dipendenza. Ma c’è ancora molta strada da fare per arrivare a dimostrare che alcuni alimenti generino una dipendenza, così come la definisce il manuale americano di psichiatria (DSM IV).
Tuttavia, anche a fronte della grave epidemia di obesità che ha colpito gli Stati Uniti, cominciano a evidenziarsi i primi segnali di precauzione. Per esempio la Kraft ha smesso, volontariamente, di pubblicizzare i cibi più grassi per bambini. E sono iniziati i primi processi che coinvolgono industrie alimentari: l’accusa è la stessa che costrinse le multinazionali del tabacco a maxi-risarcimenti dopo aver dichiarato, nel 1994, di fronte al congresso Usa che la nicotina non dava dipendenza. Un’affermazione che fu contraddetta da documenti trovati in possesso delle aziende. Secondo l’accusa le industrie alimentari sarebbero a conoscenza del fatto che alcuni cibi da loro venduti danno dipendenza, mentre il consumatore no. Se questo fosse spinto dalla dipendenza, non sarebbe imputabile a una sua scarsa volontà il fatto di continuare a ingrassare, con i rischi per la salute che questo comporta e la riduzione della qualità della vita. Dunque avrebbe diritto a un risarcimento. Quello che è assodato è che sono diversi anni che alcune grosse industrie alimentari studiano le proprietà dipendentigene dei cibi e i modi per renderli più desiderabili.