Si può fare poesia al tempo della post-verità?

Se poesia è dire senza dire, fare apparire significati nella mente di chi legge senza che abbiano necessariamente legàmi evidenti con quelli delle parole che li hanno evocati; se poesia è sorprendere, ridisegnare panorami consueti con una potente e straniante messa a fuoco; se poesia è enigma da risolvere; se poesia implica una voce personalissima e originale, allora i versi smozzicati di Laura Accerboni sono sicuramente poesia.

Nei testi di Il prima e il dopo dell’acqua niente è detto. O meglio, niente di quello che è detto ha un senso logico. Il senso emerge, più che per associazione, per sfregamento, come il fuoco da un fiammifero. Anzi, come la scintilla da un cozzare di pietre focaie: il suono è duro, la luce poca, ma calda quanto basta per incendiare.

Diverse liriche della raccolta descrivono immagini: «La sedia/ ha solo/ tre gambe/ ma resta/ in piedi/ sopra/ c’è tutto/ il tavolo/ e la cucina/ e la casa/ e poi ci siamo/ noi/ con la quarta gamba/ tra i denti/ e ringhiamo/ ogni volta/ che qualcuno/ la tocca». Le immagini a loro volta possono essere derivate da opere d’arte contemporanea – ecfrasi o contaminazioni – e producono così un effetto di mise en abyme, che si dirama ulteriormente quando, attorno alla stessa immagine, l’autrice sviluppa una serie di variazioni, in un concatenarsi di poesie.

Il suo procedere pare, talvolta, quello di una dimostrazione per assurdo, quel tipo di argomentazione per cui, presupposta vera la tesi opposta a quella che si vuol dimostrare, si fa vedere come ne derivino conseguenze impossibili. Immagina di parlare coi morti per dimostrare quanto poco abbia senso parlare coi vivi: «Il fatto/ che nessuno risponda/ è secondario/ se ci pensi anche noi/ non sempre». (…) «Che poi, diciamocelo,/ non è per essere cattivi/ ma non si sa/ proprio cosa dire/ una volta c’era una/ che aveva ucciso i figli/ e continuava a farlo/ per tutta la storia». E ancora, i mutevoli corpi «che non sanno/ da che parte si diventi», si definiscono in opposizione: «Come scende giù/ il corpo/ a confronto/ di quella statua/ che resta/ a due metri/ di distanza/ ci siamo/ di nuovo persi/ nel marmo».

In opposizione a ciò che è inanimato, e anche a ciò che non ha più anima: «Volevo dirti/ che la città/ ha deciso/ di mettere noi/ come rovine/ abbiamo spigoli/ abbiamo muschio/ sulle gambe/ dietro le vetrine/ intatte/ i nostri pezzi/ hanno solo/ il valore/ dello scarto». Un’umanità ridotta come l’essere marino non meglio identificato descritto da questi versi spietati: «Trafitto/ da ciò che sembra/ cibo/ un colore/ bellissimo/ urticante/ ingoiato/ dalla promessa/ di ingoiare/ non pensa/ ad altro».

«Lasciavo precipitare/ i bambini/ ed era vero/ e il vero/ era/ tantissimi/ A fine giornata/ imparavano/ a saltare/ da palazzo a palazzo/ e io potevo andare/ dai corpi/ a raccoglierli». Macabra, gelida, con la sua impassibilità proietta sulla pagina la paura di divenire completamente insensibili, indifferenti.

Qualcosa, nella scrittura di questa poeta genovese di 36 anni, ricorda Amelia Rosselli, l’artista così descritta da Andrea Cortellessa nel recente Con l’ascia dietro le nostre spalle (Electa, pagg. 96, € 12): «tutto concorre, nella sua dizione, ad ambiguare il dettato e indefinitamente moltiplicarne il senso. Si può anzi dire che proprio la sua “implacabile ansia di significazione” (Giovanni Giudici) produca l’“indecidibilità dei percorsi di senso” della sua poesia (Stefano Agosti). Alla sua ansia di significazione deve allora corrispondere una non meno ultimativa ansia di interpretazione, delle sue parole, da parte nostra: “anche se è rischio massimo”, ha scritto Andrea Zanzotto, “quel capirle che comporta il capirsi”».

Una sezione centrale di Il prima e il dopo dell’acqua è dedicata agli Cnidarî, un phylum di animali acquatici a simmetria raggiata, come meduse, attinie, insignificanti polipi di corallo le cui colonie creano però concrezioni di esoscheletri calcarei, le barriere coralline, talmente vaste da risultare visibili dai satelliti in orbita nello spazio. «La casa/ la facciamo/ come i polipi/ uno attaccato/ all’altro/ tirando fuori/ cemento/ dal corpo/ al posto del calcio/ Densissima/ struttura a ventaglio/ non ammette uscite/ e la luce/ soltanto di taglio».

Il cielo «è solo/ il soffitto del bagno». Basso, soffocante. «Non vedi come è ammalato/ il bambino?/ Come mi bruciano/ gli occhi/ con tutta questa gente/ che entra e dice/ sono tua moglie/ sono tuo padre/ sono l’addetto/ alle bombole/ veniamo qui per abitare». La leggerezza è quella senza scampo della preda, mentre tutto muta, tutto è in bilico in versi come questi: «non c’è centimetro/ che non possa/ crollare/ da un momento/ all’altro».

Già nella sua raccolta del 2020, Acqua acqua fuoco, Accerboni ritraeva la nostra epoca, l’epoca della post-verità, ma anche della post-realtà, in cui più che mai nulla è stabile, tutto si ribalta per mostrare altri lati sconosciuti, pericolosi, in un flusso ingestibile e inarrestabile, dove si è persa la fiducia nella possibilità di condividere anche solo un medesimo spazio, un frammento della nostra minorata realtà, un significato.

Un mondo asfittico, dove le angosce occupano tutto lo spazio – «L’acqua/ sta sotto/ al letto/ se non dormi/ arriva/ alle lenzuola/ e annega/ ogni cosa/ fino al tetto» – un mondo surreale e illogico, cui la voce narrante cerca di opporsi con verità che non hanno alcuna presa («Mi è uscita/ una balena/ dalla bocca/ ha iniziato/ a crescere/ nella stanza./ Le ho detto / «”non è un acquario questo”») e che poi si rivelano essere, più che verità, ossessioni («La caccia/ alla balena/ sta impegnando/ il quartiere./ Dopo un rifiuto/ iniziale/ ora tutti/ vedono/ il mostro/ che nuota/ per le strade./ E potrebbe/ mangiare /i nostri figli/ dormire/ sotto i nostri/ tetti/ sostituirsi/ a noi/ con i nostri/ volti/ inabissarsi/ e non tornare»).

In questo mondo, chi scrive afferma: «Ho fotografato/ l’inferno/ è sempre a fuoco/ perfetto». Come l’inferno, «a fuoco perfetto» è solo la poesia. E lo è anche all’epoca della post-verità.

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Laura Accerboni

Il prima e il dopo dell’acqua

Einaudi, pagg. 108, € 11