Settemila anni prima che gli egizi costruissero le
piramidi e fossero innalzati i megaliti di Stonehenge, gruppi di nomadi che
vivevano di caccia di raccolta eressero simulacri di stupefacente bellezza.
Templi circolari composti da imponenti pilastri, forse gigantesche statue umane
stilizzate, popolati da animali selvatici scolpiti.
La scoperta del più antico esempio di architettura
monumentale, lo straordinario sito di Göbekli Tepe, in Anatolia, ha gettato una
nuova luce sugli albori dell’agricoltura, il decimo millennio a.C. Era il
principio della cosiddetta «rivoluzione neolitica», quando sul finire
dell’ultima glaciazione l’uomo imparò a produrre il suo cibo. Allora la nostra
specie conduceva una vita erratica, nutrendosi di selvaggina e piante
selvatiche si spostava in piccoli e agili gruppi. Il pianeta poteva sostentare
cinque-sei milioni di individui, o poco più. Ma nella Mezzaluna fertile che
andava riscaldandosi iniziò il tentativo di addomesticare piante ed animali.
L’umanità era a una svolta. Ci vollero centinaia e centinaia di anni. Poi le
popolazioni divennero sedentarie, crebbero in numero, svilupparono città e
fiorenti civiltà tra il Tigri e l’Eufrate.
È in questo momento cardine della storia della nostra
specie che si situa la testimonianza di Göbekli Tepe. Basta scorrere le
immagini che corredano Costruirono i primi templi (Oltre, Sestri Levante, pagg.
XVI, 272|€ 24,50), scritto dal suo scopritore, l’archeologo tedesco Klaus
Schmidt – ieri ospite del festival dell'inquietudine a Finalboergo – per
rendersi conto che i gruppi nomadi che 12mila anni fa vagavano per gli
altopiani dell’alta Mesopotamia erano tutt’altro che selvaggi primitivi. Già
gli antecedenti dipinti in grotte come quella di Lascaux, in Francia, detta la
«Cappella Sistina della preisoria», mostravano straordinarie doti artistiche e
simboliche dell’uomo del paleolitico, ma ciò che è stato dissotterrato in
Anatolia supera ogni immaginazione, tanto che il sito è meta di nuovi
pellegrinaggi, quelli di beninformati turisti.
Racconta Schmidt: «Göbekli Tepe (collina panciuta)
si ergeva nettamente sul paesaggio come un masso erratico. Anche da lontano era
evidente che esso non poteva essere un colle naturale». Quando raggiunse
l’altura, nel 1994, restò letteralmente di sasso: «La superficie, fino a quel
momento bigia e brulla, prese a brillare come comparsa da cristalli di
zucchero. Era un tappeto di migliaia e miglia di selci. Schegge, lame,
frammenti di nuclei, in breve, manufatti».
Nessuno abitò tra quei monoliti, il colle è un
gigantesco accumulo di rovine determinatosi dalla successiva costruzione di
santuari via via interrati per ragioni ignote. Solo un decimo del gigantesco
sito è stato scavato e sono già stati identificati una ventina di templi
megalitici composti da centri concentrici, il più piccolo dei quali non ha un
ingresso. Muri a secco si alternano a pilastri a forma di T alti fino a sette
metri. Sono statue monumentali, decorate con altorilievi e bassorilievi di
animali: serpenti, volpi, gru, scorpioni, leoni, probabili rappresentazioni di
uomini, alcuni pure dotati di una cintura e di un pudico perizoma. Giganti
antropomorfi che ribaltano oltre un secolo di ipotesi sulla complessità sociale
delle società primitive in cui lo sviluppo avveniva per stadi evolutivi e solo
le società pienamente agricole si ritenevano dotate della sovrastruttura
sociale necessaria alla costruzione di opere di tale portata.
In un mondo senza metallo e senza ceramica, dove
non c’erano ruote, né animali da soma, questi uomini dell’età della pietra
tagliarono, trasportarono e innalzarono pilastri di 16 tonnellate. Un lavoro
che richiedeva centinaia di persone e in certo grado di organizzazione
gerarchica per coordinarsi. Eppure, secondo Schmidt, si trattava di cacciatori
raccoglitori e non di agricoltori e pastori: «sono raffigurati unicamente
animali selvatici, e le ossa dissotterrate sono solo di selvaggina: migliaia di
gazzelle e uri qui trasportati per nutrire gli operai». Viene da chiedersi se
la caccia e la raccolta potessero sostentare le centinaia di persone che
lavorano alla costruzione del sito. Secondo Schimdt inizialmente l’ambiente
circostante era abbastanza ricco da nutrirli. «In queste aree i cereali
selvatici crescevano in abbondanza – risponde Francesca Balossi, archeologa
dell’Università La Sapienza di Roma che si occupa di ricostruire la dieta degli
uomini che abitavano l’Anatolia orientale in quell’epoca -. Sappiamo dallo
studio di siti contemporanei, presenti in quell’area, che allora vi erano gruppi
umani che già coltivavano. Ma sappiamo anche che in queste fasi di agricoltura
incipiente la caccia e la raccolta era in grado di sostentare più persone che
l’agricoltura. Nelle prime fasi del suo sviluppo, coltivare era complesso e
rischioso: non si irrigava e bastava che non piovesse per perdere tutto il
raccolto». L’origine dell’agricoltura è il più antico caso osservabile in cui
all’aumento del Pil non corrisponde un miglioramento della qualità della vita,
osserva l’archeologo Roberto Maggi, parlando della gracilizzazione dei
neolitici.
Göbekli Tepe sarebbe dunque la traccia di una
società preagricola forse nel suo momento culminante, scomparsa millenni prima
delle più antiche testimonianze scritte e il cui messaggio è di difficile
interpretazione. Schmidt è convinto si trattasse di templi, di un luogo di
culto costruito da svariati gruppi seminomadi che qui si riunivano per le feste
rituali. La difficoltà di nutrire tutte le persone che nel tempo hanno lavorato
alla costruzione dei santuari, porta Schimidt un’ipotesi ardita: che sia stata
questa necessità la forza che spinse gli uomini a trovare nuove forme di
sussistenza. L’agricoltura, che lì vicino veniva sperimentata, divenne
fondamentale per mantenere il culto e così si diffuse.
Schimdt rispolvera una vecchia tesi di Jacques
Cauvin, che sosteneva che quella neolitica fosse stata una rivoluzione dei
simboli, innescata cioè da un mutamento nel modo di pensare. L’impulso
dell’uomo a riunirsi per compiere rituali religiosi nacque nel momento in cui questo
smise di vedersi come parte del mondo naturale e cercò di dominarlo. Quando i
cacciatori raccoglitori costruirono i primi villaggi inavvertitamente crearono
una separazione tra l’ambiente umano, fatto di case con centinaia di abitanti,
e il pericoloso mondo esteriore, popolato dalle belve.
Ma su questa interpretazione c’è forte scetticismo.
«Il motivo scatenante della rivoluzione neolitica è molto difficile da
stabilire, si pensa a una serie di concause – spiega Balossi -. Non condivido
l’ipotesi di Schmidt, piuttosto la ribalterei: nel momento in cui l’uomo iniziò
a sperimentare l’agricoltura, l’elemento culturale e religioso divenne
fondamentale per il suo potere unificante, di legante sociale: serviva infatti
molta manodopera. Prima dell’agricoltura la popolazione umana era naturalmente
portata a scindersi in piccoli gruppi che potevano affrontare le crisi
alimentari ambientali più facilmente. La religione non fu dunque la causa
primaria, ma lo strumento della trasformazione agricola. Nel 7mila a.C.,
completata la rivoluzione neolitica, quando l’uomo ormai padroneggiava
agricoltura e allevamento, scomparve l’architettura religiosa monumentale, il
culto ritornò domestico. I templi ricomparvero solo verso la fine del quarto
millennio a. C. quando si ebbe la prima grande differenziazione sociale sul
nascere dello Stato in bassa Mesopotamia e il potere politico si identificò con
quello religioso». Tanto più si fa luce su passato, per quanto antico, tanto
più emerge che non fu meno complesso del presente.
E voi cosa ne pensate? Fu l'anelito religioso a
dare impulso alla nascita dell'agricoltura o viceversa, fu la necessità di una
grande manodopera che lavorasse nei campi a rendere necessario il collante
sociale della religione pubblica? Scrivete la vostra opinione cliccando sulla voce "commenti"