Lo Stato è “necessario”? È
“naturale”? Siamo davvero sicuri che la sua nascita abbia segnato il
passaggio delle società umane da uno stadio immaturo, arretrato, a uno
più civile ed evoluto? E ancora, da dove viene il potere dell’uomo
sull’uomo, ovvero il potere
politico? Se lo è chiesto in tempi non sospetti Pierre Clastres,
antropologo iconoclasta, brillantissimo allievo di Claude Levi Strauss,
morto a 43 anni, nel 1977.
Riprendendo un dilemma caro ad Étienne de La Boétie nel suo Discorso
sulla servitù volontaria, Clastres si chiede come sia possibile che i
più obbediscano ad uno solo, e non solo accettino di obbedirgli, ma lo
servano, e non sono lo servano, ma lo vogliano
servire. Si domanda se possa esistere una società senza dominanti e
dominati. Per rispondere analizza le “comunità selvagge”, che a
quell’epoca – la metà degli anni 70 – ritornavano al centro interesse
“dopo l’esilio cui le aveva condannate un esotismo di
lunga data basato sulla convinzione che la civiltà europea fosse
assolutamente superiore a qualunque altro sistema sociale”.
Studiando i popoli “senza fede, senza legge e senza re”, come avevano
descritto le società amerindiane i primi esploratori, Clastres si
convince che le società primitive – che definisce come società senza
Stato, che non hanno cioè organi separati di potere
politico – non hanno lo Stato non perché siano arretrate, incomplete o
incompiute, ma perché lo rifiutano, perché non vogliono la divisione
sociale tra dominanti e dominati. Hanno capi senza alcun potere: sono
solo i portavoce della comunità quando questa si
incontra con altri gruppi. Costoro non prendono mai decisioni di testa
propria, e se lo fanno sono duramente puniti. Non solo, non è la
comunità che è in debito verso il capo, è il capo che è in debito verso
la comunità per il prestigio che questa le offre,
e si prodiga per risarcirla con doni e altri atti di generosità. Questi
popoli non confondono il prestigio col potere, fa notare Clastres. E il
potere non è separato dalla società.
Nel rituale iniziatico la comunità imprime nei giovani il marchio della
legge ancestrale: “Tu non vali meno di un altro, tu non vali più di un
altro”, una sorta di “divieto di disuguaglianza” (ma neppure
un'uguaglianza di stampo marxista, chiarisce poi il ricercatore
che in Sud America ha studiato sul campo i Guayaki, i Guarani e i
Chulupi). Il rifiuto della divisione sociale, il rifiuto del fatto che
il potere sia detenuto da qualcosa che non sia la società nella sua
interezza, è una costante delle società primitive. Tanto
che queste combatterebbero attivamente il "desiderio di potere" e il
"desiderio di sottomissione": forze sotterranee che secondo Clastres
spiegherebbero l’irruzione di dominio e servitù nella nostra storia.
E a chi pensa che lo stato sia almeno sinonimo di maggior benessere,
Clastres risponde che non è vero che le popolazioni primitive vivono di
sussistenza, intesa come una condizione al limite della sopravvivenza.
Contrariamente a quanto ancora oggi si crede,
tali comunità vivono nell'abbondanza, hanno tutto ciò di cui hanno
bisogno – senza che si senta la necessità di accumulare surplus –
lavorando in media quattro ore al giorno, sottolinea l'antropologo
citando gli studi del collega statunitense Marshall Sahlins,
autore di Stone Age Economics. Ma la società selvaggia non è neppure un
paradiso perduto: il prezzo da pagare per mantenere la dispersione
territoriale e la coesione sociale necessarie a questo tipo di
organizzazione sociale sarebbe quello di uno stato di guerra
praticamente perenne con le comunità vicine.
Mettendo da parte millenni di pensiero occidentale, a partire da
Eraclito, Platone e Aristotele, per cui la società non è possibile senza
la divisione tra dominanti e dominati, è così che Clastres arriva a
chiedersi se non siano più umani loro, i selvaggi,
che avendo saputo mantenere la loro società indivisa, non hanno perso la
loro libertà.
Riprendendo un’intuizione che fu già di La Boétie, Clastres conclude che
la società in cui il popolo vuole servire il tiranno è storica, non è
eterna, non è sempre esistita. Il passaggio dalla libertà alla schiavitù
fu senza necessità, accidentale. “È la nascita
della storia, una rottura fatale, un evento irrazionale che chiamiamo
nascita dello Stato”. Per dirlo con le parole dell’amico fraterno di
Montaigne un “malencontre”: malaugurato accidente che ha potuto
snaturare a tal punto l’uomo, nato per essere libero,
“da fargli perdere la memoria del suo primo stato, e il desiderio di
riacquistarlo”. (Lara Ricci)
E voi che cosa ne pensate? Inviate i vostri commenti cliccando sulla voce "commenti"
(Pierre Clastres, L’anarchia selvaggia. Le società senza stato, senza
fede, senza legge, senza re, Elèuthera, Milano, pagg.116, euro 12)