Silenzio. La parola alle formiche. Sul limitare del suolo, in un intricato labirinto di cunicoli e appena sopra, in una ragnatela di piste odorose; su un territorio circoscritto da confini invisibili, ma annusabili (se dotati di minuscole antenne), difeso da pattuglie di soldati che si affrontano in danze rituali, dove l’esibizione della forza evita o ritarda la guerra, le formiche sviluppano civiltà. Comunità raffinatissime guidate da flaccide regine che un tempo erano state spose alate, intrecciatesi in volo con maschi dotati per l’accoppiamento e inetti a ogni altra azione, femmine capaci di staccarsi le ali e iniziare da sole il lavoro che poi sarebbe stato affidato a operaie esperte, guerriere, esploratrici, balie e becchine.
Questo racconta la parte più bella e appassionante di Anthill (formicaio), il primo romanzo di E.O. Wilson, celebre biologo autore di dozzine di saggi, due volte premio Pulitzer, esperto di insetti sociali, scopritore di nuovi, noto soprattutto per i suoi fondamentali studi sull’evoluzione del comportamento sociale, un campo di studio conosciuto anche con il nome di «sociobiologia».
Anthill (Elliot, Roma, pagg.350, euro 18,50) racconta di regine operaie volate lontano dal luogo di nascita, che nell’oscurità di una galleria posano le prime pietre di un nido dove vivranno senza uscire mai, destinate a deporre migliaia di uova, figlie, frammenti di un impero fatto di conoscenze individuali che si confrontano, neuroni di un cervello diffuso di un superorganismo feroce e generoso, guidato dai segnali odorosi provenienti dal ventre della terra dove la regina continua incessante il lavoro di replicazione dei suoi geni e di quelli di quell’unico maschio con cui si è accoppiata.
Descrive colonie di insetti geneticamente identici e altruisti che in eroici scontri si misurano e si frantumano, per generare comunità nuove e più fiorenti. Società simili a comunità marxiste ideali dove l’unica cosa che conta è il bene comune, ovvero la sopravvivenza della regina (ma i pigri ci sono anche qui). Esplicitamente paragona questi cicli epici a quelli delle civiltà umane, con cui s’intersecano, per entrare a fare parte di una ciclicità ancora più ampia, l’eterna giovinezza della biosfera. Gruppi di individui spinti dal desiderio di espansione, ma anche guidati da leggi e principi "genetici" che tendono a frenare la colonizzazione indiscriminata dell’ambiente, che porta la sua inevitabile distruzione, e dunque anche alla fine della colonia o della specie. Nel romanzo, le vicende di un formicaio si intrecciano a quelle degli uomini, che devono decidere tra lo sfruttamento indiscriminato dell’ambiente in cui vivono o la conservazione.
L’ottantunenne professore di Harvard questa volta ha lasciato la penna di saggista, che maneggiava con grandissima abilità, per avventurarsi in un romanzo, meno riuscito sicuramente del capolavoro Formiche. Storia di un’esplorazione scientifica (Adelphi, scritto con Bert Hölldobler), ma comunque appassionante, ad di là di qualche lungaggine in descrizioni non necessarie e di uno scavo psicologico presentato in modo tanto razionale da far pensare al tavolo dell’entomologo. Non bello tanto per le sue descrizioni naturalistiche romanzate (inarrivabili le pagine di L’estate della collina di J. A. Baker – traduzione di Salvatore Romano, Gea Schirò, Palermo, pagg. 176, euro 16,00 – che pure racconta storie di formicai, pettirossi, boschi e acquitrini senza nemmeno bisogno di ricorrere a personaggi e trama "umana"), ma per la capacità di vedere oltre ciò che appare, con l’occhio del naturalista esperto, in grado di spiegare i piccoli ingranaggi che fanno progredire le singole specie e nel contempo mantenere lo sguardo d’insieme sulla biosfera, e sulla sua evoluzione.
Anthill è la storia di un ragazzino della provincia profonda dell’Alabama, dove Wilson stesso è nato, che cresce appassionandosi sempre più all’ambiente selvaggio del Nokobee, un ecosistema quasi intatto denso di specie in estinzione ed endemiche, minacciato dagli immobiliaristi. Il protagonista, naturalmente predisposto a una carriera scientifica, decide invece di specializzarsi in legge, ad Harvard, per avere i mezzi per difendere il suo tesoro della biodiversità. Fermamente convinto della necessità di preservare gli ecosistemi, il giovane ambientalista si allontana da un gruppo di ecologisti massimalisti per «lavorare al centro, perché è lì che prima o poi gli estremi si incontreranno». Si specializza sulla risoluzione dei conflitti ed elabora una strategia di dialogo dove cercherà di convincere i tradizionalisti radicali della Bible belt che «conservatorismo» e «conservazione» (della natura) vengono dalla stessa radice (non solo linguistica). Un esperimento tentato peraltro da Nadine Gordimer nel suo splendido The Conservationist, del 1974, tradotto in italiano con Il conservatore (Feltrinelli, Milano, pagg. 272, euro 9,50).
Un po’ come nel racconto di Italo Calvino La formica argentina – dove si narra di un insetto particolarmente prolifico e aggressivo che invase la riviera del Ponente ligure negli anni Venti e Trenta – il protagonista giunge alla conclusione che gli immobiliaristi e tutto ciò che rappresentano non si possono eliminare, ma che bisogna conviverci. La conservazione totale di un ambiente immacolato, sembra voler concludere Wilson, è un obiettivo in contrasto con lo sviluppo, necessario al perenne confronto-scontro tra le "colonie umane". Bisogna perciò saper prendere «il meglio di due mondi», trovare una via di mezzo che consenta la crescita economica tutelando il più possibile la biosfera e la sua capacità rigeneratrice, senza la quale l’uomo è destinato a scomparire.
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E voi, cosa ne pensate? Quale equilibrio trovare tra sviluppo e conservazione? Fino a che punto la l'effimera crescita economica di un paese, la necessità di un confronto vincente con altre comunità umane, può giustificare la distruzione del loro habitat, formatosi in milioni di anni?
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