Per secoli l'uomo ha avuto una pessima opinione di se stesso. Molte società si credevano composte da esseri aggressivi, violenti, portati a commettere atti spregevoli se non adeguatamente moderati, imbrigliati, indottrinati. L'idea degli ominidi crudeli cacciatori di belve (e donne) non ha migliorato la nostra immagine.
Ancor meno è stata utile la cattiva interpretazione da parte del grande pubblico dell'efficace metafora utilizzata da Richard Dawkins nel titolo del primo libro che lo ha reso celebre: Il gene egoista. Questo è avvenuto nonostante tutti gli sforzi fatti dal biologo inglese per far sì che l'egoismo de gene – da lui teorizzato come espressione figurata perché chiaramente il gene non pensa né ha coscienza – non si riflettesse su tutto l'organismo.
A questo proposito si può leggere il saggio dello psichiatra statunitense Randolph M. Nesse, divertente già dal titolo: "Perché un sacco di gente dotata di geni egoisti è abbastanza carina, fatta eccezione per il suo odio per Il gene egoista" Why a lot of people with selfish genes are pretty nice except for their hatred of the selfish gene.
I tentativi di stabilire la portata dell'altruismo nel genere umano, e del perché questo si sia sviluppato, dividono ancora i ricercatori. Darwin stesso ci rifletté in L' origine dell'uomo e la selezione sessuale. Tuttavia, diversamente da quel che si possa immaginare, le scoperte e le teorie nate negli ultimi anni in campo biologico consentono un grande miglioramento della nostra autostima.
Innanzitutto un comportamento altruistico e disinteressato, o addirittura costoso per chi lo offre (a volte il costo può essere la vita), pare proprio esistere in natura, e non solo nell'uomo. È frequente soprattutto in specie con strutture sociali complesse come, per esempio, i bistrattati vampiri, ma anche negli uccelli, nelle scimmie, persino negli insetti sociali, come api, formiche, termiti (si veda a questo proposito l'interessante voce della Stanford encyclopedia of philosophy "altruismo biologico").
"Altre scoperte nel campo dell'antropologia, delle scienze sociali e delle neuroscienze convergono nel mostrare che gli esseri umani sono naturalmente predisposti per essere gentili e socievoli, non crudeli e violenti" sintetizza C. Robert Cloniger, psichiatra, professore di genetica e direttore del Center for Well-Being della facoltà di medicina dell'Università di Washington e autore di Feeling Good: The Science of Well-Being.
I primati per esempio sarebbero dotati di meccanismi comportamentali, neurologici e ormonali che rinforzano i comportamenti altruistici e di cooperazione e associazione.
Secondo questo ricercatore atteggiamenti violenti e asociali sono solo risposte abnormi a condizioni non naturali. “Vivere in gruppo e aiutarsi a vicenda ha reso le condizioni di vita degli animali che le praticavano più sicure, di conseguenza ha favorito lo sviluppo di risorse intellettuali che favorissero il vivere sociale. In altre parole ha portato all’evoluzione del cervello e delle società verso una sempre maggiore cooperazione”.
Altri ricercatori rifiutano anche l’idea degli antenati cacciatori: studi sulle ossa e su altri primati indicherebbero che gli ominidi erano più prede che predatori (si veda per esempio Man the Hunted: Primates, Predators, and Human Evolution di Donna L. Hart e Robert W. Sussman).
Alcuni autori, quando si parla di comportamento umano, per non confondere i piani suggeriscono la distinzione tra altruismo biologico, direttamente legato alla fitness (successo riproduttivo), e altruismo “reale”, ovvero di consapevole intenzione di aiutare gli altri.
Secondo Elliott Sober, per esempio, i due altruismi sarebbero indipendenti, ciò che favorisce l’uno non favorisce necessariamente l’altro e viceversa. Secondo lui se accettiamo un approccio evoluzionistico al comportamento umano, non c’è nessuna ragione particolare per pensare che l’evoluzione possa aver creato uomini guidati principalmente dal proprio egoismo “reale”. È anzi ragionevole pensare che la selezione naturale abbia favorito quei soggetti che genuinamente aiutano gli altri.
Cercando di semplificare al massimo, l’idea è che nel caso di alcune specie di animali l’ambiente e le interazioni tra gli individui abbiano favorito i comportamenti di cooperazione, anche disinteressata, perché questi erano funzionali alla miglior sopravvivenza degli individui.
Il fatto che la selezione naturale (o sociale, preferiscono in questo caso chiamarla alcuni) abbia dunque sostenuto gli individui più altruisti, esclude alla radice il rischio, paventato giustamente da una lettrice, che i comportamenti generosi non facciano parte della natura dell’essere umano ma siano solo il frutto di uno studiato opportunismo.
Ma allora, giustamente lo psichiatra Nesse si chiede, perché ancora tutto questo odio contro chi cerca una base biologica dell’altruismo? Ironia della sorte, sarebbero proprio i meccanismi che hanno almeno in parte favorito la diffusione dell’altruismo a farci rifiutare l’idea che questo possa esistere, che sia parte integrante, e materiale, della nostra natura.
Molte persone hanno infatti immaginato che le teorie legate alla ricerca di un significato evolutivo nell’altruismo implicassero necessariamente che l’amicizia e l’amore fossero solo uno scambio, o che comunque avessero un fine utilitaristico, e dunque, poiché i complessi meccanismi delle società umane che avrebbero permesso il diffondersi di individui altruisti tendono a emarginare ciò che è egoista, si sono rivoltate contro questa idea.
In conclusione, il nostro personale parere è che si possano mettere da parte atteggiamenti cinici, disfattisti, qualunquisti e deprimenti: non siamo poi così male e le nostre società possono sicuramente migliorare, soprattutto se si sostengono quei comportamenti che favoriscono la cooperazione. Viva dunque l’altruismo e la buona reputazione!
E tendiamo le orecchie, la biologia moderna promette altre indicazioni su come migliorare il vivere comune e, perché no, forse anche altre scoperte gratificanti per il nostro ego.
Le risposte dei lettori arrivate via e-mail
Ferruccio Andolfi – Parma
La domanda se la natura umana sia buona o malvagia non può avere risposta. Esistono evidenze che permettono di avvalorare tanto una tesi che l’altra. La presenza nel mondo di persone buone, o che tentato di vivere orientate verso il bene, cedendo in misura minima a impulsi malvagi, è altrettanto incontestabile quanto quella dei peggiori orrori. Anche una risposta diplomatica, che si limitasse a registrare una certa equivalenza di istinti buoni e malvagi, sarebbe insoddisfacente. Neppure il lavoro di scavo e sospetto che cerca di individuare le radici in ultima analisi egoistiche dei comportamenti altruistici non dà risultati decisivi: se un’evoluzione è avvenuta, infatti, ormai la nuova realtà ha acquistato una sua solidità. Perché accanirci a ricordare le tappe più arretrate dell’evoluzione, il bestione primitivo che è in noi? Forse per non dimenticare che la barbarie è in agguato e può ritornare? Le scolaresche vengono accompagnate ad Ausschwitz per questo motivo – e probabilmente senza grande frutto. Il criterio dell’estensione è anch’esso difficilmente applicabile: non solo non ci sono strumenti per sondare il cuore degli uomini ma, quando pure la malvagità dovesse dimostrarsi più diffusa della bontà, questa non sembra una buona ragione per considerare più reale ciò che prevale quantitativamente? Se certe possibilità di vita buona, o se si preferisce progredita, sono state raggiunte, è sempre possibile pensare che nel tempo possano divenire prevalenti, e che già da ora rappresentino un livello di realtà più alto della pura esistenza fattuale, così largamente intrisa di comportamenti malvagi.
L’unica risposta che possiamo dare alla domanda iniziale nasce da una decisione: se vogliamo che l’umanità diventi migliore o ci rassegnamo al fatto che resti nello stato di abiezione di cui abbiamo indibbiamente tante testimonianze. La fiducia nella possibilità di essere buoni e che questo atteggiamento si diffonda non è cieca, perché si fonda su evidenze, sia pure limitate. Ma è soprattutto efficace, e in modo esponenziale. L’altro a cui ci rivolgiamo con questa fiducia ne è (o quanto meno ne può essere) contagiato. La vita stessa di chi crede nella bontà possibile risulta più soddisfacente, e ciò lo conforta a seguitare sulla stessa strada. Se questa fiducia arriva a diventare un principio di vita, senza alcun fanatismo, ovvero senza alcuna pretesa che una comunità del bene sia di fatto disponibile, è difficile che possa essere modificata da prove contrarie – prove che in ogni caso potranno sempre essere smentite da «controprove» ugualmente convincenti.
Mi rendo conto che possono esserci percorsi di vita che per ragioni psicologiche personali o per la gravità degli eventi, privati e pubblici, a cui si è stati esposti, restano refrattari a questa fiducia. Rappresentano quote di infelicità dolorosa e forse non redimibile, e un ostacolo al diffondersi della fiducia. Il massimo impegno dovrebbe essere impiegato da parte delle persone fiduciose per sostenere chi si trova schiacciato da tali forme di infelicità. Questi sforzi possono non essere coronati da successo, tuttavia sono alimentati dalla persuasione che la stessa infelicità non è riportabile mai soltanto a una radice oggettiva ma dipende, forse in misura decisiva, dalla prospettiva che si assume nel vivere la propria situazione più o meno disgraziata. Se dovessimo attenderci la felicità dalla realtà delle cose, allora sì che essa sarebbe rigorosamente impossibile.
Carlo Banfi
Madre Teresa di Calcutta era altruista o era per guadagnare la felicità eterna? Sono d’accordo che alle azioni meschine/negative si dà più importanza. Per fare il bene bisogna deciderlo, le azioni negative e gli errori vengono quasi automatiche, per qualcuno quelle meschine sono le più sincere perché più istintive, non controllate. Allora tu fai dieci azioni nobili, poi cadi su una negativa ed è quella che conta. Non è automatico che chi aiuta è poi aiutato, è vero il contrario, è vero anche che essere altruisti da senz’altro una possibilità in più, sempre tenendo presente di amare il prossimo come noi stessi ma non di più. Allora ben venga il “vivere in gruppo” che favorisce una convivenza migliore attraverso regole condivise e alla visibilità dei comportamenti. Dice bene la Montalcini, quando afferma che il nostro cervello è ancora quello di decine di migliaia di anni fa e dobbiamo ancora farne di strada. Quindi creare condizioni che favoriscano il progredire, non nel senso di un PIL sempre più alto, e che, visti i tempi che corrono, impediscano il regredire a stadi primitivi. Non so se siamo egoisti o altruisti, senz’altro meno istruiti e con maggiori difficoltà economiche cose che, messe insieme, rischiano di favorire l’egoismo.