Chi sono i più antichi custodi della memoria della specie umana?

Un baobab di duemila anniAccucciato nella sabbia rossa del campo, ha appena finito di accendere il fuoco con due bastoncini. «Il maschio», «la femmina», aveva detto, mostrandoli, curioso forse di capire se l’allusione veniva intesa, ma non malizioso. Sono legnetti leggeri di marula, di baobab, o di Maytenus del Senegal. Li ha sfregati uno nell’incavo dell’altro, con qualche minuscolo sassolino depositato in mezzo, nella cavità “femminile”, facendo ruotare velocemente il maschio tra le mani affusolate. Alcune grida d’incitamento, e un filo di fumo si è levato nell’aria. Ha avvicinato una paglia finissima e quando il fumo ha iniziato a diffondervisi l’ha raccolta delicatamente nei palmi e ha soffiato finché ne è emersa la fiamma. Poi l’ha adagiata in un nido di rametti che subito si è acceso.

Ora, invece, è l’arco che sta mostrando, le frecce. Sono smontabili: la punta è legata stretta con un tèndine di antilope a un bastoncino duro e corto, che viene infilato in una cannula lunga e sottile. Quando l’animale è colpito, solo la cannula si sfila, lasciando un indizio insanguinato per il cacciatore, mentre la punta resta conficcata nella carne, più difficile da staccare per chi non ha mani, e libera così tutto il suo letale veleno . Le punte – spiega – venivano fatte con le ossa delle zampe delle giraffe. Erano lasciate a mollo per quattro giorni. Divenute più malleabili, le affilavano.

Poi mi guarda. Ha uno sguardo limpido, penetrante, ironico forse. Pare vedermi davvero. Mi sento vista. Mi domando cosa veda. Mi ricordo che sono arrivata fino a qui per chiedere loro chi siamo, chi sono io. Loro, i San, qui gli Ju/’Hoansi San, che custodiscono la più antica memoria della specie umana. Che ancora vivono come vivevamo noi tutti, prima che l’adozione dell’agricoltura e dell’allevamento ci allontanasse così tanto da quello che i nostri geni si sono evoluti per fare, dal nostro genetico sé. Troppo veloce l’evoluzione culturale: biologicamente siamo ancora gli stessi esseri umani nomadi che vivevano di caccia e di raccolta.

«Quando sono arrivati gli europei e hanno iniziato a recintare tutto – racconta senza enfasi, sbirciandomi da un angolo dei suoi occhi affilati e ridenti – è allora che abbiamo cominciato a staccare il metallo delle recinzioni per fare punte di freccia triangolari che restavano ben fisse nella carne e dunque non andavano perse e si potevano riutilizzare». Il suo tono è pragmatico, non rivendicativo. Lo guardo, vorrei capire se mi sta dicendo altro, ma non si svela. Mi mostra quelle efficienti punte ”rubate” alle recinzioni che li hanno tenuti fuori dalle loro terre, che ancora li relegano ai margini di un territorio, quello dell’Africa australe, di cui sono i più antichi abitanti. Erano i primi, sono diventati gli ultimi. La loro presenza, testimoniata anche da splendide raffigurazioni rupestri in quelle che oggi sono la Namibia e il Botswana – che addirittura per consentirgli di cacciare chiede loro di acquistare un permesso periodico – è di decine di migliaia, se non di centinaia di migliaia di anni antecedente alle invasioni di popolazioni di pastori bantu, che chiamano «i neri», perché loro invece hanno la pelle ambrata, e alle usurpazioni più recenti e più terribili dei bianchi. Di entrambe resta traccia nelle storie che tramandano gli anziani: quando una sera attorno al fuoco chiedo loro se ne hanno memoria, il racconto delle violenze e dei rapimenti per la tratta degli schiavi è ancora vivo e carico di forti emozioni.

Le punte sono sottili lame di metallo, paiono quasi inoffensive. Per dargli la forma le battono sul fuoco, spiega mostrando un prodigioso utensile ricavato da una durissima radice ritorta, che, a seconda di come vi si inserisce una lama, si trasforma in un’ascia o in un attrezzo per raschiare, o battere. Non è il peso delle frecce, la forza propulsiva dell’arco, a permettergli di uccidere animali anche molto grandi, come kudu, giraffe, bufali, un tempo elefanti, ma il veleno. Un veleno potentissimo, che affidano a un ragazzo solo quando i suoi comportamenti consentono di considerarlo un adulto. Non tutti possono usarlo, è troppo pericoloso. Ma non è un esclusiva degli uomini, anche le donne cacciano, se vogliono: sono culture egualitarie quelle dei San, e quasi prive di cerimonie e di culti.

Tengono solo due o tre frecce avvelenate, oltre ai due bastoncini per accendere il fuoco, nella faretra. Unico loro bagaglio, insieme alle uova di struzzo impiegate come borracce, è fatta con la radice della Vachellia reficiens, detta anche acacia dalla corteccia rossa, arrostita cinque ore sulla brace e poi battuta per farne uscire il midollo. Il morbido laccio della tracolla è di pelle di dik-dik, di cefalofo o di altre piccole antilopi, come i loro vestiti. Le pelli di quelle più grandi, l’orice o l’eland, servono da letti e coperte.

Mentre ci inoltriamo nella boscaglia si fermano e con foga mostrano un arbusto anonimo: paiono solo rami spogli. È un cacciatore anziano a guidarci, e lui non sa l’inglese. Parla la sua bella lingua schioccante – ce n’è una che contempla oltre 80 click – adornandola di molti eloquenti gesti, tanto che a volte non serve quasi la traduzione fatta dal giovane San che aveva acceso il fuoco e mostrato le frecce, e che ora sta dicendo «veleno, veleno!». «Non ha ancora le foglie – spiega – perché è inverno, ma quando spuntano si riempiono di vermi. Questi le divorano tutte e poi si interrano. Passato un po’ di tempo, scaviamo sotto la pianta, raccogliamo i bozzoli delle ninfe in cui si sono trasformati i vermi: è lì, il veleno».

«Hai visto che il mio cuore è allegro e aperto? – dice l’anziano San, nel congedarmi -. Quando torni a casa dillo agli amici, dì loro che noi siamo felici!».

La giornata è finita nello Ju/’Hoansi-San Living Museum di Grashoek, 7 km a nord della lunga strada sterrata C44, tra Grootfontein e Tsumkwe, nel nord est della Namibia. È uno dei sette “musei viventi” creati dalla Living culture foundation Namibia, fondazione tedesco-namibiana, e ora interamente affidati ai San, ai Damara, agli Ovahimba e ad altri popoli locali. Da quando ci sono, le auto piene di turisti che sfrecciano veloci sulla strada bianca impolverando i San e lasciandoli con la curiosità di conoscere quegli insoliti individui, come ci racconta Kxao Khan//an, guida San, ogni tanto si fermano, entrano nel villaggio, e gli avventori scambiano denaro al posto di cultura: si iscrivono a corsi di alcune ore per imparare, o almeno vedere, come costruire archi, accendere fuochi, seguire le tracce degli animali, cacciare, danzare, creare gioielli con frammenti di uova di struzzo e semi, o ascoltare gli anziani raccontare antiche storie . Vicino al villaggio si può piantare la tenda. Anche se vogliono vivere come gli antenati, i San hanno bisogno di denaro, specialmente da quando, con l’indipendenza della Namibia, il governo li ha forzati a diventare sedentari, a mandare i bambini a scuola. La scuola va bene, dice Khan//an, ma non è facile proseguire negli studi: molti abbandonano perché derisi per il loro aspetto, il colore della pelle, la strana lingua e la povertà.

«Sono più felici loro», afferma sicura, sulla strada del ritorno, Nisa, che ha 13 anni, vissuti in Francia. Lo dice anche, dopo un quarto di secolo passato coi San, l’antropologo James Suzman, in Affluence without abundance. What we can learn from the world’s most successful civilisation (Bloomsbury, pagg. 300, £ 10,99). Il benessere senza l’abbondanza: massimo 15 ore alla settimana servono ai San per procacciarsi il cibo, e meno di altre 15 le spendono in attività domestiche che solo a fatica potrebbero definirsi “lavoro”. Non hanno impegni giornalieri, devono darsi da fare solo quando il cibo è finito. Possono dormire, riposare, divertirsi nel resto del tempo. Non sono ostaggio di aspirazioni irraggiungibili: possiedono solo quello che possono trasportare, e nessuno ha più degli altri. È stato l’avvento dell’agricoltura, diecimila anni fa, a produrre quello sbilanciamento che ha costretto le donne a ruoli domestici e subordinati e generato l’accumulo dei capitali all’origine delle disuguaglianze odierne, ipotizza Suzman.

Qualche giorno dopo, oltre il confine, 500 km più a sud, il deserto del Kalahari è sbocciato. Piccoli fiorellini gialli e bianchi punteggiano i radi arbusti. I pompon color canarino della water acacia spandono un profumo languido nell’aria secca. Seguiamo due giovani San ingaggiati dal Kuru development trust per insegnarci a tracciare gli animali. Fanno pochi passi nella boscaglia e si fermano attorno a un fazzoletto sabbioso di un metro quadro. «Qui – indica delle tracce – tre giorni fa è passato un kudu, andava di là, seguiva la luna piena». «Qui – fa segno l’altro – si è rotolata una iena bruna. Vedete i peli?» E mentre raccoglie dello sterco, lo spezza e dice: «una giraffa, tre mesi fa», la superficie prende vita, acquisisce quattro dimensioni, si anima. I giovani San leggono un alfabeto per noi perduto e, con loro, vediamo infine gli animali passare, il tempo scorrere. Ci avviciniamo al nostro sé dimenticato.

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Dove andare
Tra Namibia e Botswana
I Living museum in Namibia sono sette, offrono corsi giornalieri o in alcuni casi di più giorni, e si può campeggiare nei villaggi. Ulteriori informazioni su www.lcfn.info
Il sito https://strong-strings.blogspot.com è tenuto da Kxao Khan//an, un San che parla bene inglese e si offre come guida alla civilizzazione San, convinto che più i turisti si interessano alla loro cultura, più sarà facile che i giovani mantengano le tradizioni. Vive a Tsumkwe e può accompagnare nei villaggi più remoti (+264814977772, kxao.strongstring@gmaiil.com).
In Botswana il Kuru development trust si occupa di preservare la cultura dei San. Interessante, lì vicino, anche il Kuru art project: www.kuruart.com