«Quando l’ultimo pezzo della calotta cranica fu rimosso c’era questo oggetto che pesava poco più di un chilo, grigio come ci si poteva aspettare, ma vivo, capace di creare sogni, fantasia, scienza, letteratura, amore, rabbia». Così Ian McEwan descrive al telefono uno dei momenti più entusiasmanti della sua vita: il giorno in cui ha assistito a un’operazione al cervello. «Che la coscienza possa emergere dalla materia organizzata in un certo modo è stupefacente, è uno degli aspetti più elettrizzanti della nostra vita» racconta, riferendosi a quell'esperienza grandiosa.
Tutti i romanzieri sono studiosi del comportamento e della mente umana, McEwan lo fa con rigore scientifico. Nella sala operatoria si stava documentando per il romanzo Sabato e spesso gli capita di commentare le azioni dei suoi personaggi citando ricerche pubblicate in riviste peer-reviewed. Può descrivere la tentazione del protagonista di Sabato di rivalersi su un uomo che ha invaso la sua casa prendendo ad esempio esperimenti che mostrano come la vendetta attivi le aree del cervello della gratificazione. Perché la nemesi procura piacere "fisico": riversa ondate di dopamina negli stessi centri che ci fanno sentire appagati nel soddisfare la fame, la sete, il desiderio sessuale.
Siamo quel mucchietto gelatinoso, McEwan non ha dubbi: la mente (o anima) e il cervello coincidono: «Non credo ci sia altro». «Sono un materialista che è pieno di meraviglia – afferma poi -. È una cosa che toglie il respiro pensare che i neuroni connessi in un certo modo, scaricando fanno sì che io le parli e che lei mi parli, e che la vita cosciente possa andare avanti».
Il nostro Essere molecolare non implica però il determinismo: «credo che abbia più libero arbitrio un’entità biologica che una creatura di dio. La mente ha miliardi di miliardi di possibili connessioni, miliardi di miliardi di possibili esiti. Per quel che mi concerne il materialismo è libertà intellettuale e libertà di azione. Ed è eroico il tentativo delle neuroscienze di capire il cervello, la coscienza». Lo è anche l'intento della letteratura, che indaga la mente e la condizione umana con strumenti differenti che «dipendono per la gran parte dall’immaginazione, dall’esperienza di vita dell’autore e da impulsi dell’inconscio, con proporzioni che variano da scrittore a scrittore».
Non si deve infatti pensare che McEwan, autore dal metodo empirico e difensore della ragione, costruisca i suoi romanzi come fossero dimostrazioni matematiche: «quando scrivo, il processo razionale e conscio di elaborazione della trama viene per secondo, per primi ci sono impulsi irrazionali difficili da descrivere. Nel momento di iniziare la stesura di un libro non riesco a capire perché una cosa sia più importante di un’altra, ma è così: devo accettare che ci sia qualcosa che mi trascina, trattenermi dal cercare troppe spiegazioni. Mi sottometto a un processo che è un po’ come sognare. La razionalità entra in gioco dopo, nella pianificazione, nel dare forma non solo ai capitoli e all’intelaiatura del libro, ma anche alla struttura della frase. È facile dimenticarlo, ma per gli scrittori il lavoro di ogni giorno è l’accumulazione di frasi che si pensa potranno essere utili. E qui c’è bisogno di un approccio più razionale, quando correggi, e correggi ancora, e cancelli, e aggiungi e fai piccole modifiche. Ma anche in questo caso è arduo dire perché una frase sia giusta e un’altra no. Per questo molti autori fanno fatica a spiegare come e per quale motivo fanno ciò che fanno. È quasi come chiedere a qualcuno perché ha pensato i pensieri che ha. Spesso non scegliamo su cosa riflettere. C’è qualcosa di incontrollabile, di casuale, e quindi incantevole nella natura del pensiero».
La mente, che vede più di ciò che noi pensiamo di vedere, mettendoci per esempio in allerta anche quando non siamo coscienti di un pericolo, o i meccanismi inconsci che ci fanno prendere decisioni economiche o politiche molto meno razionali di quanto vorremmo sono al centro di affascinanti esperimenti di cui, naturalmente, McEwan è al corrente. Gli chiediamo se crede che l’ispirazione letteraria sia frutto di processi inconsci simili. Se quella forma di conoscenza che si trasmette al lettore con le parole di un romanzo, di una poesia, o attraverso l’arte, percorra vie analoghe. Risponde citando ricerche che indagano la nozione che abbiamo di bellezza, suggerendo che alla base ci possa essere un valore adattativo. Quando subiamo il fascino sprigionato da un bel viso o da un bel corpo simmetrico, per esempio, è perché probabilmente è indice buoni geni. Chi, nella notte dei tempi, aveva una predilezione per compagni armoniosi ha avuto più possibilità di resistere alla selezione naturale e ci ha trasmesso questa preferenza.
Ma poi osserva: «Ogni volta che leggo questi studi mi dico, "interessante, ma anche se ora lo sappiamo non cambierà nulla". Continueremo a fare le nostre scelte, manterremo gli stessi gusti pur accettando di avere un’intelligenza emotiva che agisce in tutte quelle che crediamo siano le nostre decisioni razionali».
Capire i processi biologici che ci fanno apprezzare l’arte, o innamorare, toglierà qualcosa all’appagamento che ognuno di noi prova? «Al contrario. Io credo che più conosciamo di ciò che avviene durante l’innamoramento più saremo in grado di trattenere il piacere soggettivo. Più possiamo capire, più possiamo soddisfare la nostra curiosità, più avremo meraviglia del mondo. E questo funziona sia se parliamo dei processi naturali sia se parliamo del cervello. La spiegazione non distrugge il mistero. Ho sempre pensato che la scienza aggiunga, non che porti via».
«La conoscenza – prosegue – non ci impedisce di continuare ad avere le nostre esperienze soggettive. Dominio in cui la scienza probabilmente non potrà mai entrare perché la coscienza è l’unica cosa al mondo che non si può condividere. Di coscienza ognuno può avere solo la sua. Il modo con cui possiamo avvicinarci maggiormente alla coscienza dell’altro è attraverso la letteratura, a mio parere. Questa è la grande esplorazione di come sia essere nella pelle altrui, che poi è a sua volta un perfezionamento di ciò che facciamo ogni giorno quando interpretiamo le espressioni degli altri, il tono di voce, i gesti; quando cerchiamo di leggere la loro mente».
Frequente, negli scritti di McEwan, come Espiazione, la riflessione sulla relazione tra immaginazione e crudeltà, e più in generale tra immaginazione e morale. «Credo che la capacità di mettersi nei panni di un altro, l’empatia, sia il fondamento della nostra morale. Trattare gli altri come vorremmo essere trattati noi». La letteratura, dunque, ha una funzione sociale? Ha la capacità di incrementare la moralità? «Questa è una domanda molto difficile. Sì, dovrebbe. Ma sappiamo anche che uno dei popoli più eruditi del secolo scorso, i tedeschi, hanno commesso alcune delle più inimmaginabili crudeltà. Viviamo con questo paradosso. Ma io continuo ad aggrapparmi alla convinzione, e forse è più una speranza, che quando la società sviluppa degli strumenti, attraverso la letteratura, la drammaturgia, il cinema, la televisione, per spingerci a considerare la condizione di altre persone, il cerchio dell’empatia, della comprensione, della compassione, si allarga. Molti scrittori hanno sostenuto che una delle caratteristiche interessanti della modernità sia questa circonferenza che si sta estendendo. Tre-quattro secoli fa per esempio nessuno si curava del benessere dei bambini, di ciò che provano. Né si preoccupava degli animali (e in questo caso è ancora così in molte parti del mondo). Stiamo diventando, o meglio, diciamo che spero che stiamo diventando, un po’ più sensibili agli altri». Subito dopo aggiunge sconsolato: «tuttavia siamo circondati dalla barbarie e dalla stupidità – una pausa di riflessione -. Credo sia una questione di fare due passi avanti e uno e mezzo indietro».
Non è però il desiderio di conoscenza il principale motivo che spinge McEwan a scrivere: «Ci sono diverse ragioni, una è dare piacere, un’altra è provare piacere, perché c’è qualcosa di profondamente gratificante nel dare forma a un romanzo. Però è vero che penso ai miei libri come a forme di esplorazione. Quando ne inizio uno spesso non so dove mi porterà. È un viaggio senza una mappa. Non sono però sicuro che ciò che guadagno al termine di questo percorso sia la conoscenza. Sicuramente arrivo ad avere idee più chiare su ciò che è la condizione umana, ciò che abbiamo in comune nelle nostre menti, e su cosa esse siano. Ogni volta che mi metto a lavorare a un nuovo romanzo è come se fosse il primo: devo imparare a scriverlo. È un processo di apprendimento».
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P.S. Ian McEwan sarà a Barolo sabato prossimo alle 15.30 in piazza Blu per «Collisioni» (www.collisioni.it). Tra gli scrittori ospiti del Festival (dal 5 al 9 luglio) anche V. S. Naipaul, David Grossman e Massimo Carlotto.