«Vi prego, non smettete di leggere questo libro» scrive Virginia Roberts Giuffre, una delle “sopravvissute” – si dovrebbe dire, salvo che lei non è sopravvissuta – agli abusi della coppia di pedofili composta da Jeffrey Epstein e Ghislaine Maxwell e dei politici, principi, miliardari, scienziati loro amici cui era ceduta come giocattolo sessuale. “Sopravvissuta” anche agli stupri precedenti a quando, sedicenne, fu reclutata da Maxwell quale “massaggiatrice”. L’atroce racconto delle violenze subite fin dai sette anni, all’inizio per mano del padre, è difficile da sopportare e lei lo sapeva bene. Così, dopo le prime 80 pagine del suo lucido memoir pubblicato postumo, che di pagine ne fa 450 – Nobody’s girls. La mia storia di sopravvivenza in nome della giustizia – supplica chi legge di non rinunciare.
«So che la mia storia è dura da sopportare – scrive -. Le violenze. L’abbandono. Le decisioni sbagliate. L’autolesionismo. Immaginate che un simile trauma vi rigiri di continuo dentro la testa, come accade nella mia, invece di essere raccontato nelle pagine di un libro che in un qualsiasi momento potete mettere da parte, per riprendere fiato. Però, vi prego, non smettete di leggere. So esattamente come aiutarvi a superare le parti più dure. È lo stesso metodo che uso per me stessa: concentrarmi sul presente». E così Virginia Roberts Giuffre si mette a descrivere i suoi tre bambini, la vita familiare, il marito che avrebbe voluto fosse un marito e non un confessore, convinta che possa risollevare il morale di chi legge come accadeva a lei. Ed è questa ingenuità caparbia, forse, una delle parti più commoventi del terribile resoconto della sua vita.
Un memoir scritto «per destigmatizzare le esperienze delle vittime»; perché il modo in cui Epstein vedeva le donne e le ragazze, giocattoli usa e getta, «è piuttosto diffuso tra certi uomini di potere che credono di essere al di sopra della legge»; perché è ancora frequente l’atteggiamento che ha permesso a Epstein di fare ciò che ha fatto: quello di coloro che, vedendo le ragazzine nude sulle sue isole e intorno alle sue piscine, le ragazzine portate in giro e alle cene non si sa bene perché, facevano come niente fosse. Tanti i nomi delle persone che la minorenne Giuffre ha incontrato con Epstein: Donald Trump, Bill Clinton, Al Gore, Flavio Briatore.
Nella prefazione, firmata nell’agosto 2025 da Amy Wallace, l’autrice cui aveva chiesto di aiutarla a scrivere le sue memorie, si legge che il 9 gennaio 2025 Virginia Roberts Giuffre l’aveva chiamata, agitatissima, riferendo che il marito l’aveva aggredita, inviandole foto del suo viso gonfio e livido. Poi lo aveva denunciato, ma la polizia australiana non gli aveva contestato alcun reato. Al contrario, l’esposto fatto da lui subito dopo aveva avuto come risultato un’ingiunzione restrittiva che vietava alla donna ogni contatto con i figli. Eppure non si trattava della prima volta in cui Virginia Roberts Giuffre sporgeva denuncia: a Wallace aveva raccontato l’arresto del marito nel 2015 in Colorado per averla aggredita. Wallace ha ritracciato il vice-sceriffo, ricordava bene che contro l’uomo era stato emesso un provvedimento che gli impediva di tornare a casa, ma questo non era consultabile. Virginia Roberts Giuffre aveva deciso di non citare quell’episodio nel libro per il bene dei figli. E così Wallace, pur sapendo che chi subisce abusi nell’infanzia ha 15 volte più probabilità di subirli anche da adulto, e pur avendo avuto testimonianza di altri maltrattamenti del marito da parte dei fratelli di Virginia Roberts Giuffre, aveva rispettato il suo desiderio.
Il 25 aprile 2005 Virginia Roberts Giuffre viene trovata morta. Nel memoir Virginia Roberts Giuffre descrive le minacce e gli appostamenti di cui era vittima dopo le denunce contro Epstein e i suoi complici, la paura che aveva che potessero fare del male a lei o alla sua famiglia – ragione per cui non rivelava i nomi dei più potenti che avevano abusato di lei da ragazzina (anche «un famoso ex primo ministro»). Wallace nella prefazione dice che si è uccisa. Eppure, il dubbio sul fatto che sia stato davvero suicidio, resta in chi legge. Certo, sopravvissuta agli abusi del padre, del suo amico, all’indifferenza della madre, all’incessante tortura sessuale nel circolo di Epstein, potrebbe non essere riuscita a sopravvivere alla violenza del marito e al divieto di vedere i figli. In un’intervista fatta 20 giorni prima di morire, lei stessa dice con amarezza di essere riuscita a lottare contro Maxwell e Epstein ma di essere a lungo rimasta prigioniera della violenza domestica.
Il 1 aprile 2025 la donna aveva inviato a Wallace e al suo agente un messaggio in cui scriveva che quanto contenuto in Nobody’s girl (libro «dedicato alle mie sorelle sopravvissute e a tutte le persone che hanno subito abusi sessuali») è «di importanza cruciale, perché il suo scopo è gettare luce sui fallimenti sistemici che permettono il traffico di individui vulnerabili oltre confine. È imperativo che questa realtà venga capita e che i problemi relativi alla questione vengano affrontati, ai fini sia della giustizia, sia della sensibilizzazione. Se io dovessi morire, voglio essere certa che uscirà lo stesso. Credo abbia il potenziale di influire su molte vite e di promuovere il dibattito necessario».
Che possa influire ce lo auguriamo anche noi, e dobbiamo constatare che Virginia Roberts Giuffre – chi scrive vorrebbe non dovere nominarla con il cognome del padre che l’ha stuprata e quello del marito che l’ha maltrattata, ma non vuole neppure chiamarla solo Virginia, infantilizzandola e facendola divenire una qualunque – ha fatto tutto il possibile perché questo avvenga.
Il suo racconto è accurato e sincero, nonostante l’enorme dolore che deve esserle costato rievocare gli stupri del padre, dell’amico cui l’aveva prestata, dei ragazzi e degli uomini che l’avevano violentata quando vagava per le strade senza meta dopo essere fuggita dal riformatorio dove era stata mandata per il suo comportamento ribelle e per l’uso di droghe, e dove aveva confessato – senza che nessuno agisse per proteggerla – di essere vittima di stupri, dei due anni di incessanti abusi da parte di Epstein, Maxwell e degli amici potenti cui veniva “prestata”. Ancora più penoso deve essere stato confessare come la manipolazione subita dalla coppia di pedofili e la sua disperazione l’avessero portata a provare qualcosa per Epstein, di come sapessero farla sentire complice degli abusi che subiva, e soprattutto di come a un certo punto si fosse prestata a reclutare anche lei adolescenti per loro, individuando, come le avevano appreso, quelle più fragili, facendo leva sulle loro ferite e sulla loro disperazione: il suo più grande rimorso.
E se la prima metà di Nobody’s girl racconta la discesa agli inferi dell’abuso, la parte più importante è forse la seconda. Qui, dopo essere finalmente riuscita a dire addio ai suoi carcerieri – alla richiesta di questi di partorire il loro figlio – descrive la sua vita di sopravvissuta, la misconosciuta immane difficoltà di vivere col trauma, e la decisione, alla nascita di una figlia, di rievocare tutto iniziando la battaglia legale e mediatica per far emergere la verità sui suoi aggressori. Una battaglia che nonostante tre lustri di impegno è ancora ben lungi dall’essere vinta: «dove sono i filmati che l’Fbi ha confiscato nelle case di Epstein? E perché non hanno condotto ad azioni legali contro altri criminali»? si chiede nell’ultima pagina, augurandosi che accada. E che nel futuro una ragazzina che chiede aiuto lo possa trovare facilmente.
© RIPRODUZIONE RISERVATA
Virginia Roberts Giuffre
Nobody’s girl
Trad. di Studio editoriale Littera
Bompiani, pagg. 448, € 22