La carestia in Algeria, opera di Gustave Guillaumet, 1868, che descrive la terribile carestia che colpì l'Algeria tra il 1866 e il 1868 a causa della siccità ma soprattutto alla gestione coloniale che ha distrutto la pastorizia tradizionale. La fame e le malattie si ritiene abbiano ucciso un terzo della popolazione

Da che parte sta la civiltà? Mathieu Belezi e la colonizzazione dell’Algeria

La carestia in Algeria, opera di Gustave Guillaumet, 1868, che descrive la terribile carestia che colpì l'Algeria tra il 1866 e il 1868 a causa della siccità ma soprattutto alla gestione coloniale che ha distrutto la pastorizia tradizionale. La fame e le malattie si ritiene abbiano ucciso un terzo della popolazioneSulle chiatte discendono la Senna, la Saona, il Rodano. Arrivano davanti al mare, infine: «il mare e la sua luce accecante che sbatteva come una bandiera sul porto di Marsiglia». Sono contadini francesi che a metà dell’ottocento si apprestano a salpare per l’Algeria, stipati con altri cinquecento in una fregata. Il governo ha promesso loro sette ettari da coltivare, in cambio della «forza, [del]l’intelligenza, [del]l sangue nuovo e ribollente di cui la Francia ha bisogno in queste terre di barbarie». Tra questi Séraphine, suo marito, i loro tre bambini, la sorella col marito e il figlio. «Ingenui emigranti»: molti moriranno, altri diverranno belve. Qualcuno farà ritorno, pieno di piaghe.

Attaccare la terra e il sole, di Mathieu Belezi, pseudonimo dello scrittore francese Gérard-Martial Princeau, che a partire dal 2008 ha raccontato in varie opere narrative il “far west” francese, ovvero la conquista dell’Algeria durante il regno di Louis-Philippe, è uno dei romanzi con cui si inaugura il nuovo imprint di Feltrinelli, Gramma.

La colonizzazione dell’Algeria, e la guerra che la portò all’indipendenza nel 1962, sono state a lungo un argomento tabu in Francia, se si pensa che un film come La battaglia di Algeri di Gillo Pontecorvo (1966) non è apparso in tv fino al 2004 e che tuttora le opere che ne parlano restano limitate. Di ritorno da un viaggio di ricognizione in Algeria proprio negli anni in cui il romanzo è ambientato, Alexis de Tocqueville scrisse: «noi facciamo la guerra in modo più barbaro degli arabi stessi. Al momento è dalla loro parte che si trova la civiltà». Come Joseph Conrad con il Congo, o Antonio Lobo Antunes con l’Angola, Belezi accende una luce sulla violenza coloniale (anche linguistica: il cosiddetto peuplement, popolamento, le cosiddette campagnes de pacification, campagne di pacificazione). Violenza che alcuni storici come William Gallois, dell’Università di Exeter, hanno definito, non senza polemiche, genocidaria, e che tanto può dirci del mondo in cui viviamo oggi. Di un passato che non passa.

Attaccare la terra e il sole ha due voci narranti, quella esaltata di un soldato magnetizzato dalla furia del suo capitano, dall’odore e dal gusto dolciastro del sangue, e quella ipnotica e cantilenante di Séraphine, contadina partita per l’“avventura” coloniale – così ancora oggi la chiamano alcuni – piena di dubbi: «domande che [suo marito] spazzava via col dorso della mano perché per lui erano roba da brave donne, e non era con le domande da brave donne che si andava avanti». Giunti a Annaba – Bône per gli invasori – questi sono divisi in gruppi. Raggiungeranno sui carri militari «due colonie agricole tracciate alla cieca da qualche funzionario della malora» in un «percorso incerto tra campi e sassi, sotto lo sguardo cattivo di ragazzini lerci, di donne che nascondono i loro bassi istinti sotto stracci chiassosi». Sono i roumi, sono divenuti i nemici.

«Dietro la nostra colonna l’orizzonte era nero di nuvole, che si scavalcavano, si arrampicavano l’una sull’altra per vedere meglio quella gente sbarcata all’improvviso», ricorda Séraphine. La notte cala d’un colpo sull’accampamento, piantato in un deserto duro di sterpi e pietre. E, subito dopo, un diluvio durato tre mesi costringe tutti in tende fradice. Quando il sole riappare già scotta, e i contadini si rendono conto che anche solo per andare a dissodare i loro sette ettari di terra bisogna essere scortati dai soldati. I nemici incombono: tagliano la testa agli invasori, li smembrano, stuprandole prima, se si tratta di donne. Terribile, fa la sua comparsa il colera. Un sentimento di legittimità inizierà a fondarsi sul sangue e sul sudore versato. Oltre che sull’asserita alterità ontologica di coloro che vogliono sottomettere.

«Non siete angeli!» sbraita il capitano apostrofando i suoi soldati, tra cui l’altra voce narrante. «Come se fossimo sordi, e arrivati ieri, e ancora tutti impacciati sotto il giogo dell’equipaggiamento militare, mentre dopo lo sbarco a Sidi-Ferruch ne abbiamo fatta di strada, abbiamo dato fuoco a villaggi, tagliato teste, speronato il ventre di almeno centomila femmine e infilzato con la baionetta quante centinaia di migliaia di petti barbari? quanti? dopo quindici anni di conquiste su queste terre della malora non riusciamo nemmeno a fare il conto».

Invasati di rabbia contro chi non accetta la loro “missione civilizzatrice”, infoiati dall’avidità, assetati di dominio sulle donne che li respingono, eccitati dal grugnito selvaggio che si leva dalla truppa dopo giorni di cammino, di fame, di freddo, quando nel giorno di Natale avvistano un villaggio da assaltare, grugnito che «indurisce come un pugno il desiderio che è ancora in noi, quel desiderio folle che ci spinge ad affrettare il passo, anzi a correre (…), baionetta puntata contro i muri tremolanti del villaggio», i soldati si lanciano verso l’ennesimo eccidio. «Ho conquistato il tuo fondouk con la punta delle mie baionette e della mia sciabola e sono io il signore, il signore assoluto che ha diritto di vita e di morte su ognuno di voi, su di te, di te e di te!» dice il comandante al capovillaggio. In cambio della vita chiede di essere nutrito e servito, che gli vengano offerte le loro donne, le loro figlie. «Tu non mi credi, è così? – continua, in risposta al silenzio ostinato dell’altro – pensi che i miei capi ad Algeri non mi diano il diritto di tagliare quanto voglio le vostre teste di assassini? e però ti sbagli, sono dieci anni che non faccio altro che razziare i vostri villaggi e i vostri campi, ammazzare quelli che mi resistono e violentare le loro donne, è il mio lavoro di soldato, mi danno quello che mi serve per compierlo e si congratulano con me».

«Nel grande silenzio carico di neve che scende dalle montagne», nel bianco che «beve il sangue degli uomini come ha bevuto quello delle bestie», gli avvoltoi vanno a tuffare il becco nei cadaveri, mentre gli uomini si svegliano «sbalorditi da quel lago di luce». Il massacro è sospeso. Un attimo, solo per riprendere con più furore. E bruciare fino a noi.

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Mathieu Belezi

Attaccare la terra e il sole

Traduzione di Maria Baiocchi

Feltrinelli, pagg. 138, € 16