«Come può l’uomo conoscere, con la forza della sua intelligenza, i moti interni e segreti degli animali? Da quale confronto fra essi e noi deduce quella bestialità che attribuisce loro?» Chissà se quando Montaigne metteva su carta questi pensieri, nella sua torre immersa nella campagna del Périgord, poteva immaginare la corrispondenza d’amorosi sensi che lega i ratti, che soffrono nel vedere i loro simili torturati, e che rinunciano alle leccornie se per averle viene inflitta una scossa ai loro compari. Chissà se sospettava la smaccata avversione per le ingiustizie dei cebi dai cornetti, che controllano con attenzione che i propri compagni siano trattati correttamente. O che i bonobo hanno tutt’altra idea su come condividere un piatto di cibo rispetto agli scimpanzé, e che questi ultimi puniscono chi arriva tardi per la cena, quando la regola imposta dai perfidi ricercatori è che nessuno mangia se non sono tutti presenti. O, ancora, che l’unico modo che aveva l’etologa russa Nadia Ladygina-Kohts per fare scendere dal tetto il testardissimo scimpanzé Joni era di mettersi a piangere. E che le elefantesse sanno delicatamente prendersi cura di chi sta male, come le orche o i delfini, che sono cetacei assai compassionevoli.
Certo possiamo immaginare che l’autore dei Saggi sarebbe interessato a leggere Giustizia selvaggia. La vita morale degli animali (B.C. Dalai, Milano, pagg. 280, € 18,50) una sorta di manifesto in cui l’etologo e biologo Marc Bekoff, cofondatore, con Jane Goodall, di «Ethologists for the ethical treatement of animals» e la filosofa Jessica Pierce invitano a riconsiderare il nostro modo di trattare gli altri animali, dopo aver passato in rassegna i recenti studi che mostrano che l’altruismo, l’empatia, l’avversione per le ingiustizie, la punizione, lo sdegno sono qualcosa di ben più antico dell’uomo. Sono condivisi da molte specie. La loro tesi è chiara: i dati che si accumulano stanno demolendo la nostra percezione dei confini tra esseri umani e animali, mostrando che almeno alcune specie hanno un ampio repertorio di comportamenti morali (e immorali), e che questi danno forma alle loro vite e alle loro società. Che la differenza tra ciò che è giusto e ciò che è sbagliato svolge un ruolo importante nelle loro interazioni sociali proprio come nelle nostre. Certo, quello che è corretto per un lupo non è necessariamente uguale a quello che è corretto per un uomo, e anche all’interno delle singole specie è stato mostrato che le regole di gruppo possono cambiare.
Il saggio è il naturale seguito a La vita emozionale degli animali, in cui Bekoff sosteneva che le vituperate bestie, almeno quelle con un cervello ragionevolmente sviluppato, hanno vivide e distinte personalità, menti capaci di alcuni tipi di pensieri razionali e, soprattutto, sentimenti. Ci raccontava che i gorilla fanno funerali, i cani ridono, gli scimpanzé piangono, i cavalli hanno il senso dell’umorismo, i topi sono grandi amanti del divertimento, mentre i pesci possono essere afflitti e spaventati, e sono pure capaci di astuzia e inganno (leggi qui l'articolo).
Definita la moralità come «insieme di comportamenti correlati e indirizzati verso gli altri, tesi a sviluppare e regolare le complesse interazioni all’interno dei gruppi sociali», Bekoff e Pierce ritengono che questa possa essere presente nelle specie che hanno tre caratteristiche: comportamenti empatici (legati alla capacità di sentire le sofferenze altrui, provare cordoglio, eccetera), cooperativi (quando c’è altruismo, reciprocità, fiducia, punizione o vendetta) e concernenti la giustizia (quando gli animali valutano la correttezza delle azioni altrui, hanno aspettative riguardo a ciò che si meritano o a ciò che deve essere condiviso, quando sono presenti sdegno, castigo, rancore).
Almeno due studi del 2007 hanno mostrato che ci sono specie, come i ratti, capaci di altruismo reciproco generalizzato, cioè di fornire aiuto a un individuo sconosciuto e non consanguineo. Prima si riteneva una prerogativa degli uomini e forse degli scimpanzé. «Se l’etica ha a che fare con l’altruismo, non è detto che quest’ultimo abbia sempre a che fare con l’etica» scrive l’etologo Danilo Mainardi nella prefazione. In biologia, il termine altruismo è infatti usato in maniera piuttosto generale. Taluni ricercatori sostengono che le muffe mucillaginose si comportino in modo altruistico (sic): alcuni di questi organismi unicellulari «si sacrificano» per divenire parte dello stelo della struttura mucillaginosa che deve morire per fare da sostegno alle cellule vive.
Bekoff e Pierce non ritengono di dover definire «morali» i viscidi esserini, e l’esempio permette loro di introdurre il criterio dei requisiti minimi: le muffe infatti, presumibilmente non posseggono una vita emotiva e non hanno nemmeno abilità cognitive come quelle che servono per capire le intenzioni altrui o fare previsioni sul futuro. «Noi proponiamo di considerare morali gli animali capaci delle forme più complesse di cooperazione e non di quelle più semplici, come l’altruismo derivante da selezione di parentela (una sorta di nepotismo, ndr) e il mutualismo (quando gli individui collaborano in funzione di un immediato vantaggio comune, ndr); di un’organizzazione sociale dotata di un certo grado di complessità in cui esistano norme comportamentali stabilite cui ricollegare forti stimoli emotivi e cognitivi su ciò che è giusto o sbagliato; di un certo livello di complessità del sistema nervoso, che serva come base per emozioni morali e per la capacità di prendere decisioni fondata sulla percezione del passato e del futuro; di un livello abbastanza elevato di capacità cognitive (di una buona memoria, per esempio); di un alto grado di flessibilità comportamentale. I candidati comprenderebbero i bonobo, gli scimpanzé, gli elefanti, i lupi, le iene, i delfini, le balene, i ratti».
Del resto già Charles Darwin sosteneva che gli animali superiori avessero le nostre stesse intuizioni, sensazioni, passioni, affetti ed emozioni, che fossero generosi e gelosi, vendicativi, ingannatori, capaci di provare gratitudine, suscettibili al ridicolo ma dotati di senso dell’umorismo. E per David Hume non esisteva verità più evidente del fatto che le bestie fossero dotate di ragione e pensiero come gli uomini. Per il filosofo vi era continuità tra uomo e natura. Una continuità evolutiva, diremmo oggi.
Dopo queste osservazioni è lecito chiedersi se negli animali esista una qualche forma di consapevolezza, accompagnata da un più o meno consapevole piacere nel fare del bene a qualcun altro. «Un appagamento – scrive Mainardi – che potrebbe essere in parte culturale e in parte rispondente a un’esigenza "scritta dentro" in ogni individuo di specie sociale. Ciò semplicemente perché il comportarsi altruisticamente, per degli individui sociali, produce evolutivamente una convenienza, un’adattività». Niente scuse però. Se secondo gli autori la risposta alla domanda se la moralità abbia basi biologiche è quasi certamente affermativa, ciò non significa che la biologia abbia l’ultima parola sulla moralità.
«Gli animali sono amici così gradevoli: non fanno domande, non criticano» scriveva George Eliot. Sicuri?
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